Se proprio la si vuol guardare dal punto di vista della cabala, allora siamo perlomeno in semifinale, vista la mole di tensioni e polemiche che fa da corredo all’imminente check in azzurro per il Brasile.
Detto delle similitudini con le vigilie di Bearzot e Lippi (amichevoli imbarazzanti comprese), possiamo anche parlare di stile e di etica, con o senza codici. Meglio senza, saremmo portati a dire, visto che l’eccesso di formalismi (spesso arbitrari) è uno dei talloni d’Achille della gestione prandelliana. Una gestione che, con metafora politica, potremmo definire equidistante tra Piazza del Gesù e Ponte di legno: democristiana per quanto attiene alla gestione dialettica dei casi più imbarazzanti; filo settentrionalista e ossequiosa del blasone per ciò che concerne la geopolitica delle convocazioni.
Poi accade che un signor Rossi non qualsiasi, cioè Pepito, vada oltre l’ipocrisia imperante con una raffica di tweet o che Mattia Destro – giusto o discutibile che sia – non faccia i salti di gioia quando viene investito del ruolo ufficiale di ruota di scorta e, d’un tratto, si evidenziano crepe già aperte. Prandelli ha tutto il diritto, come ogni commissario tecnico, di rivendicare il diritto alle sue scelte; paradossalmente, proprio alle più discutibili. Tanto ne risponderà lui (beh, in realtà il contratto è già al calduccio).
Quello che è imbarazzante è ascoltarlo mentre motiva quelle stesse scelte con i verdetti espressi dal campionato.
Forse ha seguito la Bundesliga, allora: non ci spieghiamo altrimenti il progressivo accantonamento di Destro e, soprattutto, la partenza di Insigne per il Brasile.
Ahi serva Italia ecc ecc…Ricordate Dante no? In certe cose, non cambiamo mai.