
Qualche animo s’è scaldato, più di un malumore è stato riposto nel cassetto, pronto comunque da tirar fuori all’occorrenza; Prandelli e Chiellini sono un poco più sopportabili, visto che di simpatia – ragionando da romanisti – non si può proprio parlare.
Perché noi siamo così, lo siamo sempre stati e non soltanto nei confronti della nazionale di calcio: della nazione in generale. Si parte con diffidenza, poi si comincia a simpatizzare con cautela, senza troppo sentirsi parte in causa; infine si sale sul cavallo alato dell’entusiasmo. Se poi, eventualmente, arriva la vittoria, di chiunque sia figlia, sul carro non ci si sale semplicemente: lo si assalta proprio, scordandosi ciò che si era detto prima, di Garibaldi, degli americani prima dell’otto settembre e di Marcello Lippi.
Nello specifico di questi mondiali brasiliani, bisogna aggiungere che vedere gli altri ci sta riconsolando nei confronti dei nostri: Messi non saluta il ragazzino, i brasiliani non disdegnano aiutini (ini?) poi fanno i vaghi in conferenza; i tedeschi invadono il Portogallo accusando gomitate al Pepe e via dicendo, fino alle delusioni belga – nonostante la vittoria – e russa che non fanno seguito a pronostici e proclami.
Anche in questo caso possiamo diventare entusiasti, se una serie di cose gira come deve; senza per questo diventare uniti, questo proprio no: gli italiani bisogna ancora farli, lo disse Massimo D’Azeglio, lo conferma Balotelli.