Bruno Conti, Campione del Mondo 1982, racconta come ha iniziato a giocare a calcio, le prime difficoltà, la passione per il baseball e alcuni aneddoti che hanno contrassegnato la sua infanzia, sempre, rigorosamente, con un pallone tra i piedi.
Bruno Conti, come nasce la passione per il calcio? E’ vero che c’è stato quasi un ‘ballottaggio’ con il baseball?
“E’ una passione che c’è sempre stata, da quando ero bambino, nonostante le difficoltà. Io vengo da una famiglia di sette figli, quattro femmine e tre maschi, quindi c’era bisogno di ben altro per andare avanti. Mio padre andava a Roma, si alzava alle 4 per andare a fare il muratore e tornava la sera alle 7 per portare da mangiare a casa. Si pensava soprattutto a cercare di trovare un posto di lavoro o ad arrabattarsi. All’inizio ho fatto il ‘mattonatore’, portando calce, poi ho trovato lavoro in un negozio di casalinghi per cui portavo bombole di gas nelle case, per cercare di guadagnare qualcosa. A Nettuno c’è il baseball, io ho avuto l’opportunità di giocare d’inverno a calcio e d’estate a baseball, non mi fermavo mai. Prima del calcio c’è stato il baseball. Io ero un ottimo lanciatore. Una squadra americana, il Santa Monica, mi voleva portare negli USA da ragazzino, quando avevo quindici-sedici anni. I dirigenti vennero a parlare con mio padre a casa con un dirigente del Nettuno, Alberto De Carolis, ma ero troppo piccolo e mio padre non volle”.
Quindi c’è stato il ‘rischio’ che il calcio italiano perdesse uno dei suoi grandi protagonisti. Il pallone è arrivato dopo la palla da baseball?
“Con il calcio ho iniziato nel Nettuno, poi mi ha preso l’Anzio, in Promozione, da dove ho iniziato a fare la trafila dei vari provini: Bologna, poi San Benedetto del Tronto, dove c’era la Sambenedettese che era una grande squadra, ne ho fatti tanti. Però tutti mi hanno scartato, hanno detto che ero bravo tecnicamente ma che fisicamente non potevo giocare a calcio. Ma per la passione e per il carattere che avevo, non mi sono mai buttato giù di fronte a queste cose: mi sono sempre detto che, se non avessi potuto giocare a calcio, avrei fatto il lanciatore di baseball. Nel ’73 è arrivata la chiamata della primavera della Roma e subito ho esordito in Serie A con l’allenatore Nils Liedholm”.
Il soprannome di Bruno Conti è sempre stato ‘Marazico’. Com’erano gli allenamenti del futuro Campione del Mondo?
“C’è un episodio curioso. Un allenatore della prima squadra del Nettuno, Franco Ferrari, che mi aveva visto giocare e al quale piacevo, ogni tanto mi portava a fare qualche allenamento. Vedendomi forse piccolino e gracilino, a fine allenamento mi faceva appendere alla traversa e mi lasciava lì sospeso. Dentro di me pensavo che lo facesse per farmi diventare più alto, anche se quando tornavo a casa le braccia mi facevano malissimo. Ma la mia passione era così tanta, che facevo tutto ciò che mi si diceva”.
Bruno Conti è finito due volte in prestito al Genoa prima di affermarsi nella Roma: ritiene utile quella esperienza?
“E’ stata molto utile. Quando si esce da una squadra primavera, si ha bisogno di misurarsi con realtà così importanti, anche per fare una valutazione su dove un calciatore può arrivare. Dopo il primo anno, quando ho esordito contro il Torino, sono stato ceduto in prestito al Genoa: lì mi ha voluto fortemente Gigi Simoni. Ricordo che c’è stata anche qualche polemica, perché il Genoa quell’anno stava tirando su una squadra per arrivare in Serie A e gli chiedevano: “che facciamo, prendiamo i ragazzini per andare in Serie A?”. Gigi Simoni ha vinto questa scommessa e io ho vinto il Guerin d’Oro come miglior giocatore della Serie B facendo un campionato incredibile. Tra l’altro quell’anno ho fatto anche il servizio militare con Roberto Pruzzo. E’ stata un’esperienza bellissima, siamo andati in Serie A”.
Conti oggi è responsabile del settore giovanile della Roma. Che consigli dà ai giovani calciatori?
“Di non pensare solo al guadagno facile e di non sentirsi mai più bravi degli altri: ci vogliono grande carattere, grande sacrificio e professionalità, perché la difficoltà nel calcio è quella di durare negli anni. Bisogna avere la pazienza di aspettare questi ragazzi: se hanno la testa giusta, dimostreranno con il carattere, con il lavoro e con la continuità la loro bravura”.
Quali sono i consigli tecnici che Conti darebbe a un giovane?
“I consigli li darei più ai tecnici che allenano i ragazzi. La bravura nel nostro lavoro è nella loro crescita. Dio a me ha dato delle doti naturali. Ho avuto la fortuna di arrivare a Roma e di trovare Nils Liedholm, che mi ha insegnato tanto non solo sotto l’aspetto tecnico, ma anche sotto quello caratteriale. La prima volta che mi sono allenato con la prima squadra, durante le esercitazioni sulla tecnica e sui fondamentali, mi ha chiamato e mi ha detto: “Bruno, fai vedere lo stop di interno e lo stop di esterno”. Avevo già dentro di me questi fondamentali, ma Liedholm mi ha aiutato a tirarli fuori, per esempio dicendomi, quando non ero in possesso di palla, di rientrare e di aiutare la squadra. E’ l’insegnamento dell’allenatore che ti può dare tantissimo”.
A proposito di doti naturali: Bruno Conti è nato praticamente ambidestro o lo è diventato?
“In realtà il destro lo usavo pochissimo, tutto sommato ho fatto sempre tutto col mancino, anche se poi per esempio mi è venuto fuori un gol di destro contro il Perù ai Mondiali. L’insegnamento comunque è di Liedholm, che mi faceva palleggiare sia di destro che di sinistro, finiti gli allenamenti mi teneva lì a calciare di destro. Non potrò mai dimenticare il suo lavoro con Francesco Rocca, che aveva questa forza fisica incredibile ma tecnicamente doveva migliorare tantissimo. A fine allenamento si scambiavano la palla, Liedholm la metteva sulla corsa e lui doveva crossare. Grazie a questo allenamento Rocca è arrivato anche in Nazionale. Un calciatore deve lavorare con l’allenatore anche sui fondamentali: per diventare grande nel calcio, anche tecnicamente, devi sacrificarti e allenarti nel modo giusto. Così si diventa grandi professionisti”.
Fonte: vivoazzurro.it