(L. Bianchin/G. Di Feo/M. Iaria) Questa è la storia di come il calcio italiano ha certificato il suo fallimento, in fatto di scelte tecniche e aziendali, dilapidando risorse sterminate, fagocitando un mercato a volte fine a se stesso, perdendo di vista la progettualità sportiva, diventando schiavo della “finanziarizzazione” del pallone. Questa è la storia dell’innocenza perduta di un movimento che negli anni del boom dei diritti tv, anziché accelerare ha perso terreno nel contesto europeo. Sì, nel frattempo il mecenatismo all’italiana ha imboccato la via del tramonto mentre altrove spuntavano i nuovi ricchi ma, anche solo guardando al nostro cortile, lo scempio compiuto negli ultimi 10-15 anni è sotto gli occhi di tutti, dei tifosi in primis.
Niente show Provate a chiedere a chiunque se si divertiva di più a vedere una partita di campionato a cavallo tra gli anni Novanta e i Duemila oppure adesso: tutti sceglieranno la prima opzione. Il prodotto Serie A si è andato via via impoverendo, proprio nella sua fase di espansione economica. Un non senso. Dal 1998-99 al 2012-13 ha accumulato un giro d’affari di 19 miliardi, interamente bruciati dalla spesa sportiva: 14 per gli stipendi, 5 per gli ammortamenti (il costo dell’acquisto dei calciatori spalmato su più stagioni). Responsabilità aggravate se si mette il naso in casa d’altri: a parte la Premier, che fa storia a sé con 31 miliardi di ricavi e 27 di spesa (20 in stipendi e 7 in ammortamenti), negli ultimi 15 anni la Bundesliga e la Liga hanno capitalizzato molto meglio le risorse a disposizione. A parità (o quasi) di entrate rispetto a noi – 19 miliardi e mezzo per la Bundes e 18 per la Liga – i competitor hanno sperperato meno soldi: 13 miliardi i tedeschi (10 in costo del lavoro e 3 per i cartellini) e 15 gli spagnoli (11+4). Restiamo, però, dentro i nostri confini.
Cortocircuito È mai possibile che la Serie A, pur registrando una crescita del 112% del fatturato tra il 1998-99 e il 2012-13 (al netto dell’aumento da 18 a 20 squadre), sia caduta così in basso in termini qualitativi? Si potrebbe rispondere: beh, i soldi sono serviti per produrre utili. Certo che no, perché se nel 1998-99 il rosso della A era di 11 milioni, nel 2012- 13 è stato di 202. La verità è che non si è badato a spese: nello stesso periodo gli stipendi della A (tenendo conto del passaggio a 20 club) sono schizzati in su del 110%, passando da 28,4 a 59,7 milioni medi a squadra; e pure gli ammortamenti sono quasi raddoppiati (+86%), da 12,3 a 22,8 milioni in media. Sta tutto qui il cortocircuito del calcio italiano. Soldi, tanti soldi messi sul tavolo ma per ingaggiare chi? Le stelle non cadono più in Italia, il livello complessivo dei calciatori è sceso in picchiata. Poi si scopre che i tesserati professionisti in Serie A, tra il 1998-99 e il 2012-13, sono esplosi: da 679 a 1127. In media l’incremento è stato del 50%, da 37,7 a 56,3 tesserati per società. E stentiamo a credere che ciò sia dipeso dal maggior numero di impegni agonistici. Altrimenti i giocatori effettivamente scesi in campo avrebbero seguito lo stesso trend, e invece sono passati dai 461 del 1998-99 ai 583 del 2012-13, solo 3 e mezzo in più a squadra (da 25,6 a 29,1). Inutile girarci attorno. Sul massimo campionato grava un “esubero” di 200-300 professionisti, figli dell’era del “fantacalcio” all’italiana. In parte è colpa dei bachi del sistema. Da un lato non sono previste seconde squadre o altri sbocchi efficaci per i ragazzi che escono dai settori giovanili e finiscono in un ginepraio di prestiti e comproprietà; dall’altro non viene posto un freno alle rose extra-large, a differenza di Premier e Liga, che impongono il tetto a 25 giocatori per squadra (illimitati gli under 21 per gli inglesi e gli under 23 per gli spagnoli) aderendo al meccanismo delle liste Uefa. Una strada, quest’ultima, che la Lega vorrebbe percorrere, magari dal 2015-16.
Quali strategie Ma il “fantacalcio” è anche e soprattutto una questione di modus operandi e scelte gestionali. Insomma, è un fatto culturale. Lo studio dell’Eca (l’associazione dei club europei) sui trasferimenti ci consegna cifre apparentemente inspiegabili. Nel biennio 2011-13 le movimentazioni in A sono state 2533 (di cui 1308 prestiti), il doppio della Premier (1169 con 534 prestiti) e tre-quattro volte di più di Liga (739- 275), Ligue (680-161) e Bundesliga (655-183). Saranno contenti i procuratori le cui commissioni, in Italia, erano pari a 58 milioni nella stagione 2010-11, meno solo dell’Inghilterra (86) e più che in Spagna (46), Germania (38), Francia (36), secondo una ricerca di Cies. Per non parlare della vocazione esterofila. Nel 2011-13 nessuno ha speso, nemmeno lontanamente, quanto i club italiani per pescare giocatori in Sudamerica: 158 milioni contro i 73 dei francesi, i 48 degli inglesi, i 22 degli spagnoli e i 13 dei tedeschi. La grande mole di trasferimenti ci dice che nel nostro Paese c’è una fetta del mercato che risponde più a logiche da “fantacalcio” che da calcio vero e proprio. Anche perché le differenze tra una società e un’altra sono notevoli: nella scorsa stagione, solo in entrata, il Parma ha fatto registrare 178 movimenti. Il Napoli, per esempio, ne ha fatti 17, cioè un decimo, nonostante fosse impegnato anche in Champions.
Plusvalenze vitali È ovvio che ci sono club più orientati al trading. Basta dare un’occhiata alle plusvalenze messe a bilancio: nel 2012-13 Udinese regina con 87,2 milioni, poi Genoa 54,4, Milan 53,4 (nell’anno solare 2012), Inter 33,9, Napoli 31,6, Roma 28,6, Siena 24,8, Parma 22,5; nel 2011-12 Genoa in testa con 62,2, poi Udinese 57,5, Parma 53,4, Inter 44,4, Palermo 35,5, Cagliari 23,8, Milan 23,6 (anno 2011). Complessivamente, i guadagni dalle cessioni sono ripresi a salire in tempi recenti: negli ultimi 5 anni +15% in Serie A, dove sfiorano ormai il mezzo miliardo. Senza di esse la A avrebbe un buco di 700 milioni. Molte società se ne servono per sistemare i conti e rimandare le ricapitalizzazioni. Ma quante di queste plusvalenze producono effettivamente cash e quante, invece, servono solo a cosmesi contabili, perché frutto di scambi di giocatori, magari ipervalutati, senza passaggio di denaro?
Scambi di figurine Scorrendo i bilanci delle società saltano fuori alcune valutazioni di calciatori che, quantomeno, si sono rivelate sbagliate se rapportate al rendimento sul campo. Nell’estate 2011, quella del passaggio di El Shaarawy dal Genoa al Milan, ci furono diverse operazioni di contorno. Per esempio lo scambio delle comproprietà di Matteo Chinellato, classe ’91 e nessuna presenza in A e B, il 100% valutato 3,5 milioni, e Nicola Pasini, classe ’91 e nessuna presenza in A e B, il 100% valutato 3,3 milioni. I due ragazzi non hanno mai giocato con Milan e Genoa, hanno girovagato in prestito per lo Stivale e adesso, tre anni dopo, bazzicano ancora in Lega Pro: Chinellato nell’Alto Adige, Pasini nella Pistoiese. Beninteso, ci sono tantissimi casi del genere: gli interisti Andrea Romanò e Andrea Bandini valutati rispettivamente 2,6 e 2 milioni nello scambio di comproprietà col talentino del Bologna Alessandro Capello (5); Davide Adorni ceduto dal Parma al Cesena per 2 milioni di plusvalenza, la stessa cifra di Marco Paolini che ha fatto il percorso inverso, in un altro “baratto” di metà cartellini. Tutto in nome di un istituto, quello delle compartecipazioni, che spesso è servito soltanto per sistemare i bilanci e che, fortunatamente, la Federazione ha deciso di abolire. A giugno sono state risolte 365 comproprietà, un terzo delle quali coinvolgevano sette società: Cesena, Chievo, Genoa, Inter, Juventus, Siena (tutte con oltre 20 operazioni tra attive e passive) e Parma (72).
Cura dimagrante In tanti, in questi anni, sono saliti sull’ottovolante del mercato e hanno alzato l’asticella degli stipendi, con alterne fortune. Qualcuno si è ravveduto. Il Genoa, dopo aver gonfiato il valore contabile della rosa fino ai 123 milioni del 2011, a fine 2013 è sceso a quota 77 a suon di dismissioni, con un parco da 72 calciatori, che l’anno prima erano 20 in più. Nell’ultimo esercizio, chiuso il 31 dicembre, si sono registrati 14 milioni di minusvalenze, il prezzo da pagare agli addii di calciatori non funzionali alla squadra che gravavano su un monte-stipendi pari al 96% del fatturato, adesso ridotto di parecchio. In assemblea, l’a.d. del Genoa Alessandro Zarbano ha spiegato che «il cambio di politica è stato dovuto senz’altro a una minore disponibilità di investimento, ma anche alla volontà di una riduzione dei costi conseguenti, essendosi poi verificato che, in molti casi, i risultati attesi non sono stati conseguiti. La società quindi continua nella ricerca di talenti su cui investire risorse, più però nell’ottica di un loro diretto utilizzo nella rosa per mantenerla competitiva per la categoria e per la loro diretta valorizzazione». Proprio la mission che dovrebbe essere alla base di ogni progetto calcistico.