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GAZZETTA DELLO SPORT Prandelli: “Italia, manca l’amore”

C. Prandelli
C. Prandelli

(B. Severgnini) «Prima di cominciare, posso dire una cosa?».

Certo Cesare. Non è che tu ne abbia dette molte, dal Brasile in poi.

«In questi giorni ho pensato tanto, come puoi immaginare. E una cosa mi torna in mente. Nella vita di un professionista ci sono alti e bassi, ma sono gli alti e i bassi di un privilegiato. Sono stato attaccato crudelmente. Va bene. Ma non devo sentirmi una vittima. Non ne ho il diritto. Bene, ora possiamo iniziare ».

Prima domanda: ti sarebbe piaciuto allenare la Juve? I tifosi ti avrebbero accolto meglio di Allegri, hai un passato bianconero. Se solo avessi aspettato qualche giorno, a impegnarti in Turchia… (pausa)

«Per due volte sono arrivato vicino a quella panchina, ma sono orgoglioso della scelta che ho fatto di restare a Firenze. Credevo in quel progetto sportivo».

Visto il collega Antonio Conte? Peggio lo stress da vittorie o lo stress da sconfitte?

«Una volta Conte ha detto “perdere è come morire”. Quindi sì, posso credere che oggi lui viva uno stress da vittorie».

Conte è adatto alla nazionale? Potrà trasmettere quella carica incontrando i giocatori ogni mese o giù di lì?

«No, diventa difficile. Il c.t. della nazionale ha pochissimo tempo. Puoi ovviare, in parte, se hai un blocco di giocatori di una squadra… ».

Tipo il blocco Juve…

«Sì, assolutamente. Ma sono questioni che affronterà Conte, se verrà scelto».

Da uno a dieci, lo stress dell’avventura mondiale in Brasile.

«Possiamo andare oltre il livello dieci? (ride) Non parlo di stress professionale, lì le critiche feroci ci stanno. Ma quando leggi e ascolti certi attacchi di tipo personale… ».

Ci torneremo. Ma prima: se invece di avventura mondiale la chiamassimo umiliazione mondiale?

«Umiliazione? Umiliazione è anche vedere la nostra Italia che arranca in tutti i settori, purtroppo».

Tre parole per dire cosa non ha funzionato in Brasile.

«È il progetto che non ha funzionato! Pensavamo di giocare in un certo modo e non ci siamo riusciti. Pensavamo di mettere in difficoltà la Costa Rica e non ce l’abbiamo fatta. Questo era il progetto tecnico. Ed è fallito. Punto. La responsabilità è mia». «Progetto tecnico fallito. Punto».

Per chi non fa il tuo mestiere è un po’ generico.

«Non è generico. Il campionato mi ha dato indicazioni, e ho cercato di seguirle. Ho pensato che, con gente di qualità in mezzo al campo, avremmo trovato facilità di manovra e profondità con gli esterni. Con la Costa Rica non ha funzionato. Avevo Cerci, Insigne, Cassano, Balotelli, quattro attaccanti che in campionato hanno mostrato il loro valore. Non siamo riusciti a creare una palla gol e siamo andati dodici volte in fuorigioco. Ho messo quei quattro e pensavo di vincere la partita. E, ripeto, ho fallito».

Se la Federazione fosse forte, avremmo giocato in quei posti e in certi orari?

«Io mi ricordo i giornalisti italiani al sorteggio. Tre giorni a gridare “Vergogna! Ci hanno trattato come la squadra ultima al mondo!” Poi si sono dimenticati tutto».

Convocazioni: rifaresti ogni cosa?

«Sì. Con Montolivo e Giuseppe Rossi la squadra aveva dimostrato una buona identità. Dopo gli infortuni, abbiamo dovuto cambiarla»

Alla vigilia dei Mondiali, in un’intervista per «Sette», mi hai descritto Balotelli come un ragazzo che stava maturando. Mi hai spiegato quanto fosse importante per la nazionale, come giocatoree come simbolo. Cos’è successo?

«Mario è un ragazzo fondamentalmente buono. Non è un ragazzo cattivo. Ma vive in una sua dimensione che è lontana dalla realtà. Ma non vuol dire nulla. A 24 anni ha la possibilità di fare tesoro di questa grande esperienza».

Ventiquattro anni, una figlia, quattro squadre importanti: cos’altro aspetta per tornare nella realtà? Va be’. Non hai l’impressione che noi ci siamo presentati con l’usato sicuro e gli altri con il nuovo modello? Prendiamo il portiere. Buffon è bravo, e tu ne hai stima. Ma è un portiere tradizionale. Diciamo la verità: il tedesco Neuer quel gol di Ruiz l’avrebbe preso?

«Se critichiamo Buffon dopo 142 partite in nazionale non abbiamo capito cosa ha fatto… ».

Tutti siamo riconoscenti a Buffon, ma non è con la riconoscenza che si vincono i Mondiali.

«La questione è un’altra. La Germania, quando ha avuto difficoltà, si è chiesta: qual è la nostra squadra più importante? Non ha risposto Bayern o Borussia. Ha risposto “Germania” e tutti si sono messi al servizio della nazionale. Nelle squadre italiane giocano il 38% di italiani. La stessa Juve ha sei titolari stranieri. Puntare sui settori giovanili!, dicono. Ma se sono pieni di stranieri? Di cosa stiamo parlando?».

Ce lo vedi Albertini al posto di Abete alla guida della Federcalcio?

«Ho lavorato con Demetrio quattro anni. È un uomo perbene, sa il fatto suo, ha avuto esperienza internazionale come calciatore. Ma anche lui sa che non è una persona che cambia il sistema. È il nostro calcio che va rivisto. Ripeto, dobbiamo partire da una domanda: qual è la squadra più importante in Italia? Non è la tua Inter, non è la Juve, la Roma, la Fiorentina o il Milan. È la nazionale. Solo così si arriva preparati ai grandi eventi».

Ne hai fatto cenno prima. Leggendo e ascoltando certi commenti, ci sei rimasto male.

«Il diritto di critica è sacrosanto. Ma dev’essere mantenuto nei limiti della verità, della civiltà e delle proporzioni. Secondo me chi ha scritto e detto certe cose si deve vergognare».

La cosa che ti ha ferito di più?

«L’accusa di essere scappato. L’idea della fuga. Non è vero. L’ho dimostrato nella mia vita, personale e professionale. È successo a Parma, dopo il crac Parmalat: sono scappati in tanti, io sono rimasto e con la mia squadrettina siamo arrivati quinti. È successo a Firenze. Non sono scappato. Sono rimasto al mio posto da solo, con i dirigenti inquisiti in Calciopoli, e nonostante questo, senza penalizzazione, saremmo arrivati secondi in campionato».

E…

«E non sono scappato dalla federazione: siamo tutti dimissionari! Quindi io non sono scappato da nes-su-no. Fuga? Fuga de che?».

Tu…

«Dicono che sono un uomo di marketing. Marketing vuol dire portare gli azzurri a Rizziconi (su un campo sequestrato alla ‘ndrangheta, ndr), dai terremotati, negli ospedali dei bambini, ad Auschwitz? Se questo è marketing, Beppe, lo faccio tutti i giorni! E vorrei che altri lo facessero!».

Ma…

« … ma hai capito cosa sta succedendo negli stadi? Una volta c’erano eroi poveri in campo e benestanti sugli spalti: applauso garantito. Oggi il contrario. In campo ci sono persone ricche e sugli spalti persone sempre più povere. Risentimento assicurato. Siamo dei privilegiati, dobbiamo essere comprensivi e generosi».

Non sarebbe stato meglio spiegare tutto questo e POI dare la notizia del trasferimento in Turchia?

«Non c’era tempo. Mi hanno chiamato dal Galatasaray, poi richiamato. “Siamo una grande società. Abbiamo messo in stand-by otto allenatori per te…”. E poi il campo. Avevo il bisogno fisico di mettere le scarpette e tornare in campo. Quando cadi dalla bicicletta da bambino devi risalirci subito. Le persone che mi vogliono bene mi vedevano in uno stato comatoso. Lo dovevo anche a loro. Vado a fare il mio lavoro, è una sfida, mi rimetto in gioco».

Non tutti hanno capito, però.

«Pensa, mi hanno accusato perfino di “non essere rimasto a elaborare il lutto”. Ma questo non è compito dei defunti!».

Ma tu non sei defunto. Sei l’allenatore del Galatasaray.

«Vero: io con il mio Galatasaray, a caccia della quarta stella, il 20° scudetto».

Penserai ogni tanto alla nazionale italiana?

«La nazionale galleggia ancora e si rimetterà a navigare. I giocatori potranno riscattarsi».

Escludi di tornare un giorno ad allenarli?

«Assolutamente. Il mio tempo azzurro è passato ».

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