(M. Calabresi) Gli americani sono così. Di giorno, tutti d’un pezzo in ufficio: abito scuro e capelli sistemati, davanti a un computer ad armeggiare con mille file o, in questi giorni, a ultimare l’organizzazione di una tournée. La sera, invece, capita di incontrarli in maniche corte (rigorosamente Nike), in mezzo a un centinaio di connazionali, a soffrire per il soccer.
Vedere Belgio-Stati Uniti di fronte al Ceo Italo Zanzi, in un pub a due passi da Palazzo Grazioli, è uno spasso, una partita nella partita. Poteva starci lui, al posto di Jurgen Klinsmann: «Let’s go», ogni volta che c’era da salire palla al piede, «pressure» quando il Belgio faceva possesso, «I believe that we can win (credo che possiamo vincere, ndr)», intonato dopo il gol del 2-1 di Green. Che aveva riacceso le speranze degli americani, dopo che Wondolowski («non è un attaccante, quel gol lo segnavamo anche noi») aveva calciato alle stelle la palla che valeva il Paradiso e un’altra serata tutta americana.
Il 2-0, invece, gli fa maledire Lukaku («Lo portiamo a Roma?», gli chiedono, lui ride amaro), poi Courtois gli manda definitivamente storta la serata. I (pochi) italiani, parecchi romanisti, lo riconoscono: «Italo, ma Benatia rimane?». Anche qui, solo un sorriso. Di Bradley, invece, «ho apprezzato il grande cuore». Il Ceo è così: agli occhi di tutti, anche compagnone, che dà pacche sulle spalle, non solo il «benvenuto a Roma» agli acquisti di Pallotta.