Per stabilire il valore di un libro in genere sono sufficienti i capitoli iniziali. Certamente quelli finali tolgono qualunque dubbio al riguardo. É utile dunque ripartire dalle ultime dichiarazioni di Antonio Conte, tecnico della Juventus, a margine della gara con il Benfica che ha estromesso i suoi dalla finale di Europa League in quel di Torino. L’uomo diviso fra sospetti e chiacchiere da bar, sul quale pesa il patteggiamento in sede giudiziaria, un’ammissione di colpevolezza per l’omessa denuncia ai tempi in cui da allenatore del Siena non impedì, essendone a conoscenza, la combine di alcune gare disputate dai suoi. Queste le esternazioni del tecnico natio di Lecce per commentare la seconda eliminazione dei suoi ragazzi dall’Europa:
“Non mi è piaciuto l’atteggiamento ostruzionistico degli avversari ma soprattutto l’arbitro che ha permesso tutto questo, spezzettando il gioco. Si è giocato soltanto 49 minuti di gioco effettivo quando di solito la media è di 60. C’era un rigore per mani di Markovic, come all’andata, ed è stata un presa in giro abbastanza forte anche il recupero, visto che i sei minuti sono partiti quando eravamo già al 93’. Ma forse la lamentela preventiva del Benfica è servita: ho visto grande tutela dell’arbitro Clattenburg agli avversari”.
Parole che stonano con quelle proferite neanche una settimana prima in risposta a Rudi Garcia perplesso dal comportamento di alcuni club al cospetto dei bianconeri.:
“Il calcio italiano non aveva bisogno di uno come lui per stimolare le avversarie della Juve”. Le sue dichiarazioni mi hanno sorpreso, mi sono sembrate molto provinciali. Possiamo catalogarle tra le chiacchiere da bar, a maggior ragione se le sommiamo a certe parole su alcuni aiutini. La sua mi sembra una grande mancanza di rispetto nei confronti degli altri allenatori, dei giocatori, delle società e dei tifosi. Il campionato italiano non aveva bisogno del signor Garcia per dare stimoli alle squadre che affrontano la Juve, una società che è protagonista assoluta da tre anni. “
Occorre fare un passo indietro. Contrariamente alle dichiarazioni di carattere dubbioso oltre che poco convincenti rilasciate da Conte circa la serenità dell’arbitro Clattenburg, nel post gara contro il Benfica, le considerazioni esternate da Garcia che aveva sottolineato l’arrendevolezza degli avversari nell’affrontare i bianconeri, affondano le proprie radici nella concretezza assumendo un’istanza di validità assai più vigorosa rispetto alle illazioni esternate dal collega. A colpire l’allenatore cresciuto a Nemours, un angolo remoto della Francia, con un altro modello culturale contrassegnato da una fervida etica sportiva, tanto da scomodarlo a toccare l’argomento, sono state in particolare le affermazioni pronunciate dal presidente del Livorno Spinelli prima di affrontare i bianconeri :
“Contro la Juventus faremo turnover, Di Carlo lascerà fuori giocatori importanti perché diffidati, il nostro campionato ce lo giochiamo domenica col Chievo alle 15”
UN MODELLO FALLIMENTARE – Il messaggio di Garcia sembrava piuttosto evidente. Non si tratta di cavalcare l’onda dell’antijuventinismo millantato dai media di una certa corrente come un’epidemia dilagante. In palio c’é molto di più di uno scudetto, in discussione c’é un modo di fare sport vergognoso, denunciato da un allenatore straniero, in disaccordo con il sudicio costume che investe trasversalmente l’Italia calcistica, quando altrove sono le piccole squadre sovente a decidere i campionati, non facendo sconti a nessuno.
In discussione vi è la credibilità di un sistema minato da una lunga serie di comportamenti e dichiarazioni che hanno lasciato sbigottito il tecnico transalpino. Si potrebbe parlare dell’atteggiamento rinunciatario dell’Udinese di Guidolin, delle due ammonizioni rimediate da Berardi, virgulto bianconero in prestito al Sassuolo – squalificato all’andata ed al ritorno – nelle due gare con il Chievo precedenti a quella con la casa madre. Ma si commetterebbe il peccato di trascendere nel campo delle “illazioni”. Forse sarebbe più incisivo nominare Ventura il quale – doppiamente e chiaramente penalizzato nell’ambito dei due confronti con i “cugini” – piuttosto che lamentarsi invocando tutela per il suo club e per i suoi tifosi, ha rivolto altrove i pensieri, tralasciando la grande rivalità solitamente inclusa nelle stracittadine:
“Dispiace per la Roma devo aggiungere che la Juventus è proprio la più forte”.
Bisogna ammettere che Garcia prima di venire in Italia ignorava molte dinamiche del Belpaese, così come l’arrendevolezza degli avversari nei confronti della vecchia signora. Poiché il calcio é l’arte dell’imprevisto, non è escluso a priori che al cospetto di avversari sulla carta inferiori, le partite si possano anche pareggiare o perdere. E’ proprio la suggestione della materializzazione dell’impossibile nei momenti inattesi che rende il gioco così emozionante. Ma nel calcio nostrano non funziona cosi.
La realtà va sempre enunciata, altrimenti il rischio concreto é quello di cadere nel patetico, nel ridicolo più profondo, nel penoso più estremo. Urge un cambiamento di mentalità, occorre un approccio differente, una riflessione collettiva da parte di un movimento scivolato nella graduatoria europea alle spalle del piccolo Portogallo.
Questo il tecnico bianconero Antonio Conte – accecato dai suoi protagonismi – non lo ha compreso. Già Antonio Conte, l’uomo camaleontico dalle molteplici sfaccettature, non soltanto per via dei suoi chiacchierati capelli e neanche per le demistificanti sentenze. Un allenatore sicuramente preparato, un po’ meno abile nella comunicazione, se non altro perché spesso preda di facile contraddizione, così come contraddittorio é il rendimento dei suoi uomini al di fuori dei confini nazionali. Le sue performance dialettiche sovente lasciano l’impressione di un disguido dovuto ad una memoria poco ferrea. Il che potrebbe in parte spiegare la scarsa coerenza dimostrata nell’arco di breve tempo tra una sala stampa ed un’altra, a seconda della veste indossata e della situazione commentata.
QUESTIONE DI POSIZIONE – Basta risalire infatti ai tempi in cui Conte era tecnico dell’Arezzo per osservare il condottiero simbolo della Juventinità gettare ombre sulla correttezza in campo e sull’etica sportiva, lamentando lo scarso impegno – ironia della sorte – proprio della sua Juventus nel confronto con lo Spezia:
“C’è profonda delusione e profonda amarezza, rispetto tanto i tifosi juventini ma ho poco rispetto per la squadra. “Retrocedere così fa male però mi fa capire cose che già sapevo…Nel calcio si parla tanto, tutti sono bravi a parlare, adesso sembrava che i cattivi fossero fuori e che ci fosse un calcio pulito, infatti siamo contenti tutti, evviva questo calcio pulito”.
Esternazioni che oggi verrebbero bollate dallo stesso assertore di un tempo che fu come accuse del perdente, tacciato di vile promozione di una cultura del sospetto. Dichiarazioni provinciali o più semplicemente chiacchiere da bar. In quel caso almeno non vi fu nessuna omissione da parte di Conte, fiume in piena pronto ad esondare denunce di una disparità tipicamente italiana.
Emerge pertanto una dicotomia evidente tra le accuse lanciate ai tempi in cui la conquista era frutto di una strenua lotta nei bassifondi della cadetteria ed i toni più riguardosi e garantisti innalzati dallo scranno della squadra forse migliore, sicuramente più potente d’Italia. La nenia della delusione ha ceduto il passo ad uno stile comunicativo plateale, che trasuda opulenza ed impunità, con l’aggravante di essere assolutamente divergente in base alla prospettiva.
Metamorfosi: da un lato improbabile difensore della correttezza e della moralità, con verbo affilato, tra gli agi delle mura domestiche, supportato dal piano inclinato in discesa di un campionato che nelle difficoltà e negli episodi “dubbi” ha sempre sorriso ai colori bianconeri, ben abituando il fiero timoniere pugliese. Dall’altro protagonista di una lamentosa litania nel clima asettico dell’Europa, dove l’esito mediocre delle contese con avversari meno blasonati, svolti nel pieno rispetto delle regole e senza alcun cono d’ombra arbitrale,(c’è da precisare) ne ha raggelato il cuore relegando a spento nocchiere nello Stige della dannazione da competizione europea. Cristallizzato all’esordio dal Copenaghen, imprigionato al crepuscolo nei ghiacci di un gelido inverno turco, lacerato da Snejder, tenue raggio di sole nella tempesta di neve, bastevole ad assestare un duro colpo alle ambizioni venate di presunzione del tecnico bianconero, declassandolo nell’Europa di “scorta”. Colpa del campo? Colpa dell’Uefa? Anche in quel caso sospetti, illazioni, accuse all’arbitro, visioni fantasiose, inglese inadeguato:
“Abbiamo provato a far rimandare la partita, abbiamo spiegato la pericolosità della partita al delegato Uefa ma nessuno ha voluto ascoltare. Loro hanno avuto tutto il secondo tempo per attaccare dove il terreno di gioco era messo meglio. Pochi tiri in porta? Colpa del campo: è stata una partita fatta in un pantano, di cosa stiamo parlando?”Abbiamo avuto la sfortuna di giocare tutto il secondo tempo nella parte più malconcia del campo, il che non ci ha certo avvantaggiato. Se noi giochiamo a calcio, il risultato non è lo stesso. Siamo stati penalizzati in maniera enorme. L’eliminazione non è giusta.”
Soprassedendo sul concetto di giustizia che dimora nell’animo di un patteggiatore, Antonio Conte é un libro già letto anni fa. Sembra ricalcare fedelmente la figura di Don Abbondio dei promessi sposi, descritto dal Manzoni come un vaso di terracotta fra tanti vasi di ferro: lui abituato a recitare il ruolo del paladino della morale sul suolo patrio con il conforto di un sistema fiancheggiatore, costretto ad abdicare in Europa, al cospetto di Carneadi qualsiasi, in grado di ridimensionarne ambizioni e sentimenti, rivoluzionando anche i toni dialettici, capovolgendo le situazioni, i sospetti, le accuse.
Le stesse chiacchiere in precedenza attribuite a Garcia, divenute congedo dal misero cammino sostenuto in Europa. Elucubrazioni sintomatiche dell’arroganza spregiudicata e della scarsa responsabilità di un uomo che per spiegare i motivi dell’eliminazione davanti al proprio pubblico, non ha trovato di meglio che incolpare l’arbitro piuttosto che mettere in discussione se stesso e l’inconsistenza dei suoi nel doppio confronto con le aquile lisboetas.
Una nemesi – quella europea – che oltre a soddisfare la sete di giustizia di Eupalla, ipotetica dea del calcio coniata dalla mente del leggendario Gianni Brera, manifesta tutti i limiti di un condottiero controverso, pronto a puntare il dito vaneggiando accuse di difformità, le stesse che con tono deciso rifugge in patria al grido di “dichiarazioni provinciali”. Un cammino europeo che ha i connotati di un infernale contrappasso dantesco, fallimento impietoso di un antieroe, insolito profeta acclamato in patria dai media, oltre confine mestamente esiliato nella dimensione di anonimo e pittoresco oratore da bar di provincia.
A cura di Danilo Sancamillo
Twitter: @DSancamillo