(Il Romanista) – Quando fu acquistato, nel gennaio del 1997, in pochi avrebbero pensato che sarebbe diventato un protagonista della storia della Roma e che sarebbe potuto entrare tra i votabili nella Hall of Fame 2014 (categoria “Portieri e difensori”). Anche perché, si sa, d’inverno difficilmente vengono presi giocatori che cambiano il volto di una squadra. Ma non fu così per questo francese, un po’ guascone, nato nel 1973 a Bédarieux: Vincent Candela. Preso nella stagione maledetta di Carlos Bianchi, dove la Roma si salvò per il rotto della cuffia con Liedholm e Sella in panchina dopo l’esonero del tecnico argentino, si impose subito come un terzino sinistro di qualità immense, con i piedi da numero dieci: «Me la cavavo e non solo giocando a calcio…», dice scherzando Candela.
Sta dicendo che da piccolo provò ad imporsi in qualche altro ambito sportivo prima di dedicarsi al pallone?
Diciamo che mi piaceva praticare diverse discipline. In particolare, ero molto bravo nel rugby. Mi allenavo spesso con la palla ovale, ma non giocai mai una partita vera. Ma il richiamo e l’amore per il calcio erano troppo grandi per provare a sfondare su altri campi. E così decisi di diventare un calciatore a tempo pieno.
La Roma la prelevò dal Guingamp,ma il suo passaggio in giallorosso fu tutt’altro che semplice. Rivoltò anche una scrivania, è vero?
Vero. Volevano mettermi i bastoni tra le ruote. Volevano impedire a un giovane di 22 anni come me di trasferirmi in un club prestigioso come la Roma. Feci di tutto per cambiare squadra, litigai pure con il presidente. Non lasciarmi andare non sarebbe stato un affare nemmeno per loro visto che l’anno successivo mi sarei svincolato. Ma per fortuna alla fine andò tutto per il verso giusto e il mio sogno si realizzò.
Nell’estate del 1999, però, fece di tutto anche per andarsene dalla Roma.
Vero anche questo. Arrivati alla fine del campionato ’98-’99 Zeman decise di mettermi sul mercato perché non rientravo più nei suoi piani dopo due campionati giocati con lui. Con il boemo furono anni divertenti, segnavamo e la squadra era forte con me, Totti, Di Francesco e tutti gli altri. Però anche con Zeman ci furono dei problemi e il rapporto finì col logorarsi. Non a caso, dopo l’ultima giornata a Vicenza offrii un brindisi ai miei compagni in quanto ero convinto di cambiare aria e andare all’Inter”.
E poi?
E poi cambiò tutto: Zeman fu esonerato e arrivò Capello. Lui mi dichiarò incedibile e diventai un punto di forza del gruppo che poi avrebbe vinto lo scudetto nel 2001. Capello era un duro, anche con lui ci furono confronti duri, ma resta senza dubbio il miglior allenatore che ho avuto in carriera. Sapeva gestire lo spogliatoio e l’ambiente tutto: i giornalisti e tutto il contorno che circondava la squadra.
Ad un certo punto, poi, arrivato ai trent’anni il suo rendimento calò e diventò una seconda scelta per gli allenatori. Come mai?
Un motivo molto semplice: l’amore. Conobbi l’amore e il calcio passò in secondo piano. Quando incontri la donna della tua vita, fai i figli, dai la priorità a loro. E poi, sono sincero, avevo vinto tutto: Mondiale, Europeo, lo scudetto con la Roma mi sentivo appagato e i giovani con più fame mi passavano davanti. Una roba inevitabile.
Quando nel 2005 andò via da Roma per tentare l’esperienza inglese (Bolton) pensò di vivere una seconda giovinezza altrove?
Sì, provai a cambiare aria per ricominciare e affermarmi con altri club, ma non andò bene. Anzi, lasciare la Capitale fu un errore che ancora oggi riconosco. Ha vestito per otto anni la maglia giallorossa, dal ’97 al 2005: può svelare un retroscena inedito ormai caduto in prescrizione? Posso raccontare una storia carina che risale all’anno dello scudetto. Da grande appassionato di Harley Davidson convinsi la maggior parte dei miei compagni di squadra a comprarsi le moto nonostante non si potesse per ragioni contrattuali. E quando avevamo un giorno libero, andavamo tutti in moto a Ostia insieme. Immaginate Nakata, per esempio, sulle due ruote… Anche questo contribuì a cementare il gruppo e a farci vincere il campionato.