(M. Serra) Nella grossolana gaffe razzista dell’aspirante presidente del calcio italiano signor Tavecchio pesa certamente la stramba e recente idea che il parlare schietto, anche nelle pubbliche occasioni, sia un pregio di per sé. Ma secoli e secoli di diplomazia, di buona società, perfino di salvifica ipocrisia dimostrano il contrario: spesso è assolutamente vitale non dire ciò che si pensa nel profondo, oppure ammortizzare quel pensiero in un robusto involucro di eufemismi. Solo pochissime e grandissime personalità possono concedersi il lusso di “essere se stessi’ in ogni occasione, e senza tregua.
La battuta rivolta da Diogene ad Alessandro Magno (‘spostati, che mi nascondi il sole’ ) è commovente se attribuita a un grande filosofo dell’antichità; sarebbe una insolenza da due lire se a rivolgersi così all’imperatore fosse stato un normale bischero di nessun talento, inevitabilmente destinato ai ceppi. Il ‘sé’ è il mostro che affligge la nostra epoca. Ma il ‘sé’ è un lusso che non tutti possono permettersi. Andrebbe sorvegliato con più cura, spesso sopito, perché non sempre merita di essere ostentato. Abbiamo fresca memoria, noi italiani, dell’interminabile rosario di fesserie evolgarità provocate dal ‘s锑 meno autosorvegliato del secolo, quello di Berlusconi. Ora ci tocca, più o meno tutti, rieducarci. In ciascuno di noi è in agguato un Tavecchio. A differenza di Tavecchio, siamo tenuti a saperlo.