(M.Serra) – Da un paio di giorni il piccolo milieu che guida il calcio italiano—una manciata di persone, in larghissima parte facoltosi maschi anziani — finge di non capire una assoluta ovvietà. Ed è che il signor Tavecchio si è autoescluso dalla corsa alla presidenza della Federcalcio. Che lo abbia fatto per sbadataggine o per incultura o per un malaugurato errore poco importa: gli è uscita di bocca una grossolana fesseria razzista. Di quelle che bastano a procurare ai tesserati multe salate o squalifiche umilianti, e ai tifosi di curva il famoso Daspo, il provvedimento di legge comminato a chi dimostra di non essere ritenuto adatto a presenziare, sia pure a pagamento, a una manifestazione sportiva.
L’incapacità di autogoverno delle varie élite (si fa per dire) del nostro paese ha prodotto, negli anni, un evidente superlavoro della magistratura: molto spesso, per quantità e per qualità, esondante la sfera strettamente giudiziaria, come se ai giudici toccasse intervenire laddove il buonsenso o la decenza non erano in grado di provvedere da soli. Per la serie: “Benedetti ragazzi, ma velo devo dire io, che certe cose non si devono fare? Non riuscite proprio a capirlo da soli? Non riuscite a regolarvi tra di voi, come si fa tra adulti responsabili?” Ecco un altro caso nel quale le famose “ingerenze della magistratura” parrebbero scaturire (ove scaturissero ) non tanto da una occhiuta ossessione giudiziaria, quanto dall’inettitudine e dall’irresponsabilità di un ambiente incapace di rispettare persino le proprie regole interne: a meno che la sbandierata “lotta al razzismo” sia, per il calcio italiano, un atteggiamento di pura facciata.
Un Daspo per Tavecchio, a questo punto, viene invocato da più parti; e non è solamente un paradosso; è tecnicamente del tutto verosimile che ciò che costerebbe caro a un qualunque tesserato possa costare carissimo a un aspirante capo della Federazione; con l’aggravante, evidente a chiunque — forse persino ai presidenti della serie A — che un capo è tenuto, prima di ogni altro, più di ogni altro, all’esemplarità dei comportamenti. Ai padroni del nostro calcio probabilmente sfuggirebbe il senso di un Daspo per il loro candidato. “Padroni in casa loro” lo sono da sempre, anche se con risultati economici e sportivi parecchio risicati. Va in questa direzione il pregio sostanziale che Galliani e compagnia riconoscono al signor Tavecchio: non dare troppo disturbo agli interessi dei club e della Lega che li riunisce, da molti anni ben più potente della Federazione sportiva al cui dettato i club dovrebbero inchinarsi. È per questa stessa ragione, del resto, che candidati più giovani e più autonomi ( l’ex calciatore Albertini e l’ex calciatore Rivera, il cui nomecircola da molti anni nella certezza dell’ineleggibilità per eccesso di prestigio e di indipendenza di giudizio ) non hanno avuto, da parte dei presidenti più influenti, lo stesso favore riscosso da Tavecchio. È un mondo chiuso. Malatoe chiuso. Un piccolo aiuto dall’esterno sarebbe indispensabile: se non un Daspo, magari un richiamo ufficiale dell’Uefa. Magistratura ed Europa, del resto, sono da anni i tutori, non si sa quanto felici di esserlo, del potere italiano.