(M. Graziano) Se ai giocatori Antonio Conte trasmetterà la stessa carica percepita in redazione, tranquilli, possiamo considerarci già in Francia.
Il c.t. spiega, chiarisce, descrive. Parla di tattica e di uomini. Disegna schemi e immagina mentalmente partite. Ripete cinque, dieci volte, come un mantra, che «il talento senza voglia di mettersi al servizio della squadra» non gli interessa, che vuole uomini o con lui è finita. Chiede un po’ di tempo, ma l’Italia l’ha già in mente, oggi e nel futuro. Sotto le foto storiche della Nazionale bacia d’istinto la maglia azzurra e sorride ricordando il fallo tremendo di Hagi che gli spezzò la caviglia all’Euro 2000: «Non ho dimenticato. Mi è passata dopo un po’…».
Ricorda la prima convocazione?
«Qualcosa di incredibile. Sacchi giocava con il 4-4-2 e noi alla Juve avevamo ancora il libero e il tornante. Ero contentissimo, ma mi venne subito un gran mal di testa: come quando vai a scuola e non sei preparato. Ero entrato in un contesto iperorganizzato, soprattutto in difesa. Ho sempre cercato di imparare il più possibile e non fare figuracce. Ricordo un allenamento particolare…».
Quale?
«Sacchi metteva bandierine colorate, chiamava un colore e noi dovevamo muoverci in un certo modo. Facevo una fatica dannata, quelli del Milan per fortuna ci spiegavano qualcosa. Se ti mettevi davanti eri fregato, quindi stavo dietro e seguivo chi sapeva. Non è stato semplice, ma quello stress positivo dopo è stato utilissimo. Cavolo, la Nazionale dovevi conquistartela! E questo voglio».
Oggi lei ha meno selezionabili di Sacchi e di altri tecnici.
«La coperta è un po’ corta dovunque, esclusi i centrali. Anche in difesa, dove c’è qualche giovane di prospettiva come Rugani. Ma l’organizzazione di gioco aiuterà».
Troppi stranieri nei club?
«È il problema più serio. Tutti mi chiedono: “Ci saranno sorprese?”. E io rispondo: “Quali?”. Il gruppo è quello di Cesare, uno più uno meno in relazione alla mia idea di calcio. Anche perché, lo dico subito, non bastano due-tre minuti in A, o magari due gol in una partita. La Nazionale è un premio, qualcosa da conquistare e da soffrire, qualcosa che crei un’ansia o ti faccia star male se poi non arriva».
Giovani: come farli crescere?
«Non voglio stravolgere il bel lavoro di Sacchi e Viscidi, al quale affianco Sandreani. Intendo qualche idea: un certo modo di difendersi, i due attaccanti da far giocare vicini, oppure la ricerca di esterni offensivi che consentano di passare dal 4-4-2 al 4-2-4, modulo a me tanto caro. I giovani, soprattutto Under 21 e 20, devono essere il serbatoio della Nazionale ma devono meritarla. Il percorso per l’azzurro è lungo, altrimenti sminuiamo il valore della convocazione».
Questo significa modulo unico per tutte le Nazionali?
«Nelle Under c’è un sistema definito, il 4-4-2 o il 4-2-3-1 nelle sue declinazioni. Ma per me contano più i principi dei numeri. E cioè: 1) voler fare noi la partita; 2) essere corti, intensi, aggressivi; 3) recuperare subito palla. Si prosegue sul lavoro già cominciato. Potremmo usare una Nazionale come l’Under 17 per svolgere sempre esperimenti in amichevole».
A proposito di moduli: il 3-5-2 è stato considerato da alcuni troppo difensivo.
«E questo mi dà fastidio. La mia Juve è sempre stata propositiva. Il 3-5-2 è un’evoluzione offensiva del 4-2-4 perché attacca con cinque uomini invece di quattro: due esterni, due punte e un centrocampista incursore. Ho un progetto a lunga scadenza: rispetto alla Juve, che sugli esterni aveva un difensore e un centrocampista, mi piacerebbero due esterni che facciano male in attacco e poi, in fase difensiva, chiudersi a quattro con il centrocampista centrale che scala in difesa e i laterali che diventano esterni della mediana a quattro».
Nomi per gli esterni ci sarebbero, da El Shaarawy a Berardi a Insigne…
«Berardi sì, ma lasciamolo crescere. El Shaarawy ora sta bene fisicamente: due anni fa contro la Juve è stato impressionante, è tecnico, veloce, completo, può diventare top. Se mi dà la sua disponibilità… Candreva, naturalmente. Maggio è abituato a quel ruolo. Insigne ha gran talento, è geniale nell’uno contro uno, può crescere tanto, ma non è facile giocare nella propria città».
Balotelli in Inghilterra cambia qualcosa?
«Niente in prospettiva azzurra. E non ho preconcetti né favoritismi nei confronti di nessuno. Se andare in Premier sia una scelta positiva o negativa non so, ma so che chi arriva in Nazionale deve poi meritare di restare. Conta più l’uomo del calciatore. Io ho sempre puntato sugli uomini. Li valuto dai piedi al collo, anzi dalle caviglie sennò poi dicono degli sponsor (ride, ndr ). Non guardo in faccia. E non transigo: dovremo essere squadra per fare qualcosa di importante. Il talento viene dopo, prima devi metterti a disposizione del gruppo, sennò…».
Come un club?
«Sì, un’Italia con metodologie, sistema e giocate memorizzate come in un club. Dove tutti sappiano cosa fare. Chi ha i requisiti, resta. Quando ho cominciato a fare l’allenatore ho pensato, tra l’altro, a me stesso».
In che senso?
«Da giocatore, quando mi arrivava la palla, non sapevo cosa fare: non ero Zidane o Del Piero. Stoppavo, mi guardavo intorno e i fischi arrivarono presto. Perciò voglio dare a gente meno dotata tecnicamente, come me, la possibilità di soluzioni memorizzate che consentano di inserirsi nel gioco, sapendo prima dove andrà la palla e dove prenderla: così il meno forte diventa più forte. Io avevo corsa, inserimento, colpo di testa, ma l’assist era un problema».
Servirà tempo?
«Un po’, bisogna essere buoni insegnanti. Ci sono scienziati su carta che poi faticano a trasferire in pratica le loro idee: io credo di far arrivare i concetti con buon metodo didattico. E poi servono giocatori che si impegnino. Quando vedo qualcuno che comincia a “pascolare” capisco che non entrerà nei meccanismi».
Come c.t. somiglierà a Bearzot per il gruppo e a Sacchi per la disciplina?
«Aggiungerei Lippi che, come Sacchi, ha ottenuto anche nei club quello che Bearzot ha realizzato in azzurro. Visto che i momenti difficili arriveranno, sarà importante contare su uomini: puoi avere talento ma, se non lo metti al servizio della squadra, non serve».
Parliamo di singoli. Pensa di avere Pirlo per tutto il ciclo malgrado l’età?
«Gli parlerò nei prossimi giorni. Aveva dato l’addio, io ho un’idea ben chiara e voglio confrontarmi con lui. Ma oggi non posso pensare di partire con un gruppo per due anni: c’è gente che può arrivare, altri che invece non mi daranno certezze tecnico-tattiche o umane. Da qui a due anni Andrea potrà darmi certezze oppure fermarsi».
Possibile la convivenza con Verratti?
«Verratti è un talento, ha fatto un buon Mondiale, sono curioso di allenarlo e vedere dove può giocare. Nasce trequartista, ha attitudini offensive. A centrocampo voglio un centrale e poi gente “di gambe” come Pogba, Marchisio e Vidal che si inserisca e faccia due fasi, dinamica e non statica. E quindi vedo De Rossi centrale con la possibilità che, in fase difensiva, scali per comporre la difesa a quattro».
Per lei la fase più importante è quella offensiva?
«Certo. Fare la partita. Qualcuno ti costringerà a coprirti, ma io voglio costringere gli altri a difendersi».
Il suo contratto è biennale ma la speranza è che si arrivi a Russia 2018…
«Mi hanno proposto due anni anche perché quattro non si poteva per il mandato federale. Ho accettato con grande entusiasmo, convinto di poter fare qualcosa di veramente importante. Chi mi conosce lo sa: se non sono convinto, una cosa non la faccio. E’ una cosa che avete scritto sulla Gazzetta che mi ha aiutato ad accettare l’incarico».
Quale?
«Aver scoperto di poter essere il primo allenatore del Sud. Un motivo di orgoglio in più. Porto con me sempre i valori della mia terra: lì gli allenatori svolgono un ruolo di educatori aiutando i ragazzi a stare lontani dalla cattiva strada. Una missione, come ha fatto mio padre. Da ragazzo, nella Juventina, ci allenavamo a due passi da una zona delinquenziale: era meglio andare con la maglia strappata e senza bici per non essere derubati. Aggiungo che tante idee mi sono arrivate dal calcio dilettantistico: gli allenatori non hanno la strada spianata per il patentino, devono vincere i campionati e studiare tanto».
Tre obiettivi immediati?
«Far capire l’idea di gioco con allenamenti molto tattici e partitelle in cui applicare i miei principi, lavorando con l’aiuto dei video. Poi spiegare che la Nazionale deve avvicinarsi ai club per metodologia, idea di gioco: preferisco perdere in contropiede che stare ad aspettare a metà campo. Terzo: amore e attesa per l’Italia che, con le sue quattro stelle, è la più importante del mondo dopo il Brasile».