(A. Catapano) – Dieci minuti, nessun interrogatorio, solo una dichiarazione spontanea — «Ho sparato perché ho avuto paura di essere ammazzato ma non ho mirato in alcuna direzione» —, giusto per ribadire ai pm il senso del memoriale inviato in Procura qualche giorno fa, effettivamente riassumibile in un concetto chiave: il 3 maggio ho sparato per legittima difesa e non per uccidere.
STRATEGIA – Chiaro il concetto. Come è intuibile l’obiettivo che ieri ha spinto i legali di De Santis, Tommaso Politi e Michele D’Urso, a rendere pubbliche la lettera e le foto scattate nell’ospedale di Viterbo che testimoniano la cicatrice sulla fronte e le ferite da punta sul gluteo: preparare il terreno alla strategia difensiva che metteranno in atto nel processo in Corte d’Assise, cominciare a instillare il dubbio della legittima difesa nei giudici popolari che verranno estratti. Hanno questo obiettivo tutti quei passaggi sulla «paura di essere ammazzato», «le bastonate e le coltellate dei trenta napoletani che mi inseguivano », il «sangue dappertutto», magari è strategica anche la «disperazione per Ciro Esposito: mi porto dentro il dolore per la sua morte», scrive l’indagato per l’omicidio del 29enne napoletano.
I DUBBI DEL PM – Per lo stesso motivo, si intuisce anche perché De Santis — al netto di condizioni psicofisiche effettivamente gravi —, non voglia rispondere alle domande dei pm Eugenio Albamonte e Antonino Di Maio. De Santis dice di non poter raccontare come siano effettivamente andate le cose a Tor di Quinto «per non alimentare un clima di odio e provocare qualche altro pazzo, visto che mi hanno messo contro una città intera e ora temo per la mia famiglia». Ma la sua ricostruzione non convince i pm, fin dai primi passaggi, quando De Santis scrive di essere «uscito dalla Boreale (il circolo sportivo dove vive, ndr) per chiudere il cancello perché si sentiva un casino di bomboni e fumogeni e dentro stavano giocando i ragazzi. Non ho tirato nessun bombone, quando sono uscito ho solo raccolto un fumogeno che stava per terra e l’ho tirato e ho strillato al conducente del pullman di levarsi da là quando ho visto che c’erano già casini». Se l’intento di Gastone era difendere i bambini della scuola calcio — si chiedono i pm —, perché è uscito con una Benelli 7.65 carica, di cui, peraltro, nel suo memoriale non fa alcun cenno, senza specificare perché la avesse con sé? E perché le testimonianze raccolte all’interno del pullman lo descrivono armato di almeno un paio di bombe carta, che avrebbe lanciato sul mezzo insieme a una sfilza di insulti? I dubbi, per i pm, aumentano quando De Santis descrive gli attimi che precedono la sparatoria, a contatto con il gruppo di Ciro Esposito: sono pochi secondi in cui l’indagato racconta di essere stato «bastonato e accoltellato », in sostanza ferito in modo tanto violento da giustificare quattro colpi di pistola, sparati senza mirare — dice lui — eppure hanno provocato cinque ferite, una delle quali mortale. «Se De Santis si dice disperato, significa che ha una coscienza — chiosa Antonella Leardi, madre di Ciro —. Ma io non credo che avesse paura: è uscito attrezzato per fare male e avrebbe potuto uccidere tutti». Nuovo round lunedì, nella parte dell’incidente probatorio dedicata alle conclusioni dei periti del Racis.