(E. Audisio) Era l’oggetto strano. Zigzagava seguendo vie misteriose. Imprevedibile perfino a se stesso. Un’onda anomala. G27. Movenze da cartone animato. Gervinho, soprannome da brasiliano per Gervais Lombe Yao Kouassi, 27 anni, africano della Costa d’Avorio. Ora è sempre più spesso uno slalom vincente. Pareva un’illusione, uno da quasi gol, una tromba d’aria pasticciona, adesso segna e distribuisce assist. Ha giocato in quattro paesi diversi, è arrivato a Roma nella scorsa stagione, è rinato, ma soprattutto si è trasformato: da liquido a solido.
Dove nasce Gervinho?
«Ad Anyama un quartiere di Abidjan. Mio padre impiegato in una libreria, mamma casalinga. Dodici figli: io sono il secondo, la più grande non so quanti anni abbia, il piccolino ne ha sei. Faccio una selezione all’accademia Sol Bèni e mi prendono. Eravamo più di 500 ragazzi. Partite da cinque contro cinque, tre test. Tutti scalzi. Le scarpe solo quando si superava l’ultimo livello. Il calcio mi ha salvato, è molto più di un lavoro, non potevo certo fare il banchiere. Sono progredito, ma nel mio cuore resto a piedi nudi ».
In che senso?
«Africano. Con piaceri e dispiaceri legati alla mia terra. Mangiamo con le mani: l’attiéké, manioca grattugiata. Mi piacciono le paste, anche la carbonara, ma le mie radici sono altrove. Se dicono che gioco come un africano non mi offendo, sì veniamo dalla strada, i dribbling sono una necessità, servono ad aggirare ostacoli e pericoli. E le fughe improvvise sono un modo per non essere prede. Essere imprevedibile per me è un com- plimento. E pure imprendibile ».
Dicevano: Gervinho è troppo caotico.
«Già: dove vado? Provateci voi a correre, scartare, avanzare, scattare per 50-70 metri. Sì, a volte davanti alla porta mi cala la nebbia, ma con l’aiuto dello staff tecnico ho migliorato la mia concentrazione finale. Aggiungo che forse la mia velocità di piede non va a tempo con quella della testa. Devo mica giustificarmi. Io mi ritengo fortunato, anche nelle giornate storte. Tanti nel mio paese amerebbero stare al mio posto ».
Vorrebbe sfidare Bolt.
«Non esageriamo, mi ritengo uno rapido sulla corsa, ma sì, ci terrei a conoscerlo. Lui è un gigante, la sua falcata non è da paragonare ai miei passi, io sono più esile, non ho il fisico di Drogba, e correre con la palla è un’altra cosa. Però il confronto mi attira, anche se non mi sono mai cronometrato».
È arrivato in Europa a 18 anni.
«In Belgio al Beveren, con altri ragazzi. Quando ho dato la notizia a casa non ha pianto nessuno. In Africa partire è un’opportunità che non merita lacrime. All’inizio è stata dura, anche per il cibo, ma ero con altri e mi sono adattato».
Poi in Francia.
«Al Le Mans e al Lilla, sempre con Rudi Garcia. Ci intendiamo, sa come farmi giocare, sento che c’è dell’affetto tra di noi. Io non sono di quelli che tornano a casa e aggiungono la tacca per ogni scalpo del portiere che hanno abbattuto. Segnare e fare segnare mi dà la stessa soddisfazione. E se il coach mi dice che devo liberare un compagno lo faccio, non mi sento sminuito. Mi sta bene se vinciamo noi, non vivo sull’io, una buona squadra ha sempre alternative».
Due stagioni all’Arsenal: 42 volte titolare, 30 sostituito.
«In più all’esordio in Inghilterra ho reagito a un fallo di Barton e ho preso tre giornate. C’è poco da imparare quando stai in panchina. Io ci sono stato tanto, non si fidavano di me. Non mi ha fatto bene, io se non gioco, non rendo. Il turn-over è una cosa, la completa sfiducia è un’altra. Un giocatore la sente. È determinante, anche se c’è chi pensa che l’essere messi sempre in discussione innalzi la competitività».
È l’unico che lasciando l’Arsenal è migliorato.
«A Roma mi sono trovato bene. Non è la mia Africa, ma quasi. Con me a Casal Palocco vive una piccola tribù di amici, mi fanno compagnia, e in squadra ho compagni capaci, che hanno una storia. Non ho avuto difficoltà ad adattarmi al calcio italiano. Peccato solo che il paese non faccia nulla per combattere l’etichetta di razzista. C’è troppo lasciar correre. Cos’è cambiato in me quest’anno? Forse sono più maturo, sento che quando qualcuno mi passa la palla, non è per caso, ma per la fiducia che io ne farò qualcosa. Ho ricevuto un’investitura. Anche Totti ha fede in Gervinho. E questo mi fa bene, mi responsabilizza, senza dover dimostrare ogni volta quello che valgo. Se dico che in campo mi sento un po’ il presidente spero nessuno si arrabbi».
Sempre allenatori francesi: Guillou, Wenger, Garcia.
«Vorrà mica parlare di destino a un africano? Guillou mi ha scoperto nell’Asec Mimosas in Costa d’Avorio, Wenger mi ha provato all’Arsenal, Garcia mi ha voluto nelle sue squadre. La Francia mi ha tracciato la via, non c’è dubbio. E io a quello che c’è scritto in cielo ci credo».
Sulla terra invece quale difensore soffre?
«Non lo dirò mai. In Africa non si cita mai il nemico perché così lo si rafforza. Si nutre delle nostre difficoltà. E poi mi sono messi a studiarli, non sono più impreparato».
Via, fuori i nomi.
«Al massimo quello delle squadre. Juve e Milan».
Nello spogliatoio ascolta musica?
«Molto di più: mi ci immergo e mi carico. Jay Z spesso, ma prima della partita è il sound africano che mi motiva: i Magic System».
Quelli di “Tu sei matto”?
«Non solo loro. Anche Serge Beynaud e Gadji-Celi, ex capitano della nostra nazionale, zio del romanista Tallo. Sono tutti artisti della Costa d’Avorio. Al cinema vado poco. Ma con tre figlie di 3, 4, 6 anni non ho potuto evitare la serie di Madagascar ».
Due giocatori che le piacciono?
«Messi e Cristiano Ronaldo, anche se sono l’opposto. Il primo per la tecnica, il secondo per l’aggressività. Aggiungo Thierry Henry per l’eleganza. Ci tengo allo stile».
Ha detto: i rigori non sono il mio genere.
«Confermo. Il rigore è un’esecuzione, io sono più anarchico. Alla Roma il problema di tirarli non ce l’ho».
Ora c’è la Juve, sempre difficile.
«Penso che sarà una bella partita. Importante, ma non decisiva. Tutte e due veniamo da incontri impegnativi di Champions, ma la stanchezza non sarà una scusa. Ci teniamo a fare bella figura».
La Roma è yankee.
«Ma anche un po’ africana. Dicono che con la nostra testa non vinceremo mai un mondiale. Siamo incapaci di tatticismi e di disciplina mentale. Però almeno siamo diversi».