(E. Sisti) Si ricomincia anche così. Bruttini, vincenti, di nuovo in testa alla classifica. Tanto basta. Quando a Genova Antonini inchioda la Juventus, l’Olimpico inizia una festa non prevista, una specie di flash mob, cancella tormenti, intona canzoni celebrative della ritrovata felicità. Aspettando il risultato sul tabellone, nel baccano più totale, Keita quasi non ci crede, ha lo sguardo perso nell’emozione. Per battere il Cesena i ragazzi di Garcia avevano appena effettuato il minimo sforzo. Pescando con una sola canna si sono portati a casa due saraghi, due gol per la cena, si sono contentati di quel che avevano offerto la giornata e il mare, incluso il bel ritorno al gol di Daniele De Rossi (era stato lui, a Livorno, nell’agosto 2013, a realizzare la prima rete dell’era Garcia). Sono stati umili. Tre punti importantissimi, pesantissimi. Poco importa se rappresentano il bottino di un match senza storia giocato contro una squadra che non poteva essere né un test attitudinale, né tantomeno poteva rappresentare la prova scientifica del superamento dei turbamenti tedeschi. No, gli obiettivi erano la Juventus, erano rinforzare l’autostima, riprendere coscienza di sé. Per brillare con continuità, tutti insieme, magazzinieri compresi, ci sarà tempo.
Alla Roma è bastato un acuto da manuale per prendersi la partita, un acuto scaturito da una triangolazione talmente scolastica che forse, vedendola, non ci si è soffermati abbastanza sulla sua bellezza. Pjanic, imbucata, Gervinho, cross, e Destro, gol, confezionano cinque secondi di calcio vero, da portare in giro nelle scuole e anche a casa di Lucchini e Renzetti, che non hanno nemmeno provato a fermare i tre giallorossi, pur standogli attaccati.
E’ appena il 9’. Keita gioca al posto di Nainggolan, che non riposava da decenni. Totti è in panchina aspettando Napoli e Monaco di Baviera. Senza uno straccio di luce a centrocampo e sotto di un gol, il Cesena cerca di travestirsi da Bayern e continua a pressare alto. Purtroppo al posto di Götze, Müller, Lewandowski, e Robben (e che vuoi che sia) ci sono Succi, Duric, Giorgi e De Feudis. Quindi non funziona. Cole è in ansia permanente, i compagni lo cercano con assiduità, ma lui glielo fa spesso rimpiangere. Destro vicino al raddoppio al 30’ (assist di Pjanic). Partita dal ritmo discreto ma maledettamente spezzettata e infarcita di personalismi, alcuni dei quali assolutamente evitabili.
Nel secondo tempo Astori si stira il bicipite femorale sinistro (entra Yanga-Mbiwa). La Roma attacca per chiudere la partita, ma è sciupona sulla tre quarti, dove i giallorossi, disordinati, non s’intendono, non si vedono, non si capiscono abbastanza, come calamitati da un’occasionale anarchia. Gervinho cerca triangoli al fulmicotone, negli interstizi della materia: è come se volesse passare per la cruna di un ago. Con Florenzi in campo, Keita assume una posizione più avanzata, facendo spesso il quarto attaccante. Senza Totti, ai giallorossi manca la lucidità per non dare la palla al compagno che non parte o per darla a colui che detta il passaggio. Disagi analoghi in difesa, dove Cole e Yanga si perdono il buon vecchio Hugo Almeida (24’) che per poco non fa 1-1 di testa (sono le tipiche partite che alla fine, perché non le hai chiuse, qualcuno le pareggia). Agliardi è bravo su Florenzi e Nainggolan. Poi il raddoppio di De Rossi su corner di Florenzi e torre di Keita (36’). Quindi l’eco dell’Antonini lontano che evoca vendette sportive. Contava vincere. Non sono tre punti, sono quasi sei.