(M. Cecchini) Molti temevamo che avrebbero adottato lo stile di quelli con le bretelle e la bombetta, i ragazzi verbosi e violenti di «Arancia Meccanica»: prima salutare l’Olimpico con cortesia e poi maramaldeggiare per riaffermare il Potere Celeste. Non è andata esattamente così, ma Anthony Burgess, l’autore del romanzo «cult» di una generazione – divenuto pietra miliare grazie al film di Stanley Kubrick – sapeva che sulle traiettorie che conducono dalla sua Manchester a Roma, le cose funzionano in modo diverso, sorprendente, quasi come la sua incongrua passione per i sonetti romaneschi di Gioacchino Belli, che amò così tanto da tradurli in un inglese affilato. Mondi diversi, comunque, anche se ad un certo punto del cammino sembrava si fossero avvicinati così tanto da scambiarsi i ruoli. La favorita era la squadra papalina di capitan Totti, la cenerentola invece il City dei petrodollari. Poi all’improvviso i ragazzi dell’«Arancia» – scatenando Nasri e Zabaleta – hanno rimesso le cose a posto, la chiesa della ricchezza al centro del villaggio calcistico.
I GRANDI VECCHI Sarebbe sciocco parlare di tradimento, però come non notare che tutti i «grandi vecchi» giallorossi siano evaporati (per ragioni diverse) nel momento più importante? Negli occhi di Totti, alla fine, si leggeva l’amarezza per il tempo che passa, per un’altra Champions da riporre in archivio senza aver inciso davvero se non in quella unghiata inferta proprio al City, quando tutto il mondo sembrava diverso, quando il vento soffiava nelle vele e la voglia di sorpresa gonfiava i petti. Ma oltre al numero dieci, perché è sparita la vena di Maicon, perché sono mancavate le geometrie di Keita, perché De Rossi non ha giocato nel giorno più importante, perché l’ex re londinese Ashley Cole è finito addirittura in tribuna nel «suo» derby? Quelli che dovevano «spiegare» la Champions ai ragazzi, col passare delle settimane sono tutti evaporati, come un sonetto a cui avessero rubato ritmo e verità.
OBIETTIVO CAMPIONATO A restituire la bellezza, allora, alla fine ci pensa il popolo giallorosso, che non smette di cantare anche quando in campo piegano le ginocchia. «Forza Roma», gridano tutti alla fine applaudendo a lungo e chiamando la squadra lo stesso sotto la Sud. «Vinceremo il tricolore», è lo slogan-preghiera che accompagna la notte inevitabilmente amara. E a questo si aggrappa la squadra, metabolizzando una priorità che sembra già confinare l’Europa League in secondo piano. «L’amarezza è grande – confida allora Totti agli amici – ma adesso dobbiamo guardare avanti e concentrarci sul campionato. Lo dobbiamo a noi e ai tifosi che ci sono stati vicini. Poi il prossimo anno cercheremo la rivincita». Parole che Belli e Burgess, ognuno a suo modo, avrebbero sottoscritto: anche quando è sconfitta, Roma non muore mai.