(V. D’Angelo) – Le nomination per gli Oscar sono state da poco rese pubbliche. Ci fosse stato un premio speciale per il calcio, magari italiano, l’Empoli di Maurizio Sarri non avrebbe avuto rivali nella corsa alla statuetta per la migliore opera prima. Perché Sarri, all’esordio su una panchina di Serie A, ha prodotto nel girone di andata il suo piccolo capolavoro. La classifica non rispecchia la qualità del gioco della squadra toscana, ma le prestazioni e gli ultimi risultati incoraggiano all’ottimismo. Tra sabato e martedì l’Empoli ha messo sotto l’Inter in campionato e costretto la Roma ai supplementari in Coppa Italia. Giocando a viso aperto, preferendo il palleggio alle barricate, anteponendo al risultato la propria identità di gioco. E qui sta la chiave rivoluzionaria di Sarri. Un uomo di campo, che alle chiacchiere preferisce il lavoro e ai complimenti i punti: «Siamo felici del lavoro svolto fin qui. La squadra si sta esprimendo bene anche se raccoglie meno di quello che produce. E questo alla lunga può essere anche un limite. Dobbiamo imparare a essere più cinici per centrare la salvezza ».
Quanto tempo ci vuole per raggiungere un’identità di gioco così importante?
«Il nostro è stato un percorso lungo, cominciato tre stagioni fa tra mille difficoltà. Ricordo che all’inizio, al primo anno di B, avevo tanti infortunati, giocatori fuori condizione e tanti ragazzi nuovi da inserire nel gruppo. Siamo partita con un modulo — il 4-2-3-1 — per poi trovare l’equilibrio giusto passando al 4-3- 1-2. Con i primi risultati ci siamo tolti di dosso tante paure e abbiamo cominciato a volare. Abbiamo centrato i playoff il primo anno. Il secondo la promozione diretta. Ed ora eccoci qui».
Nel girone d’andata l’Empoli è stata la più bella sorpresa della Serie A. La squadra che ha impressionato di più per il gioco. Qual è il segreto?
«Solo credendo in quel che si fa è possibile arrivare a certi traguardi. Conta la disponibilità dei giocatori, la serenità dell’ambiente e la presenza della società. Vede, qui a Empoli c’è una straordinaria sinergia tra queste tre componenti. Perché identità e senso di appartenenza sono molto marcati. La città è fiera della società, che lavora tanto con i giovani. Abbiamo in rosa tredici giocatori cresciuti nel nostro settore giovanile, magari sono andati via a fare altre esperienze e ora sono tornati per aiutare i giovani a crescere. Tavano e Maccarone sono molto preziosi, sono un grande esempio per gli altri».
Quanto è importante il modulo di gioco?
«Per me tanto, ma più che il modulo contano le idee. Partiamo da una base, il 4-3-1-2, ma durante la partita sappiamo cambiare senza stravolgere. I giocatori seguono una linea base, hanno una certezza. E le certezze alla fine risultano decisive. Con la Roma abbiamo cambiato tre sistemi, senza snaturarci. Se chiedessi di fare il 3-5-2, manderei tutti in confusione».
Il metodo Empoli può essere esportato nei grandi club italiani?
«Non credo. Vede, qui un errore fa parte della normalità, è visto come una tappa di un percorso di crescita. In altre realtà pioverebbero fischi. Quindi torniamo al punto di partenza: il mix giusto tra ambiente, squadra e società rende più facile centrare gli obiettivi».
La sua creatura però è rivoluzionaria: poco fisica e molto tecnica. Ben lontana dal prototipo di piccola che deve salvarsi.
«Le grandi idee vengono fuori dalla necessità. In estate non avevamo i fondi per investire sul mercato e inserire gente esperta. Così abbiamo mantenuto il blocco degli ultimi anni, continuato a giocare il nostro calcio, che per me già in B era a questi livelli, ma che chiaramente oggi in Serie A ha maggiore visibilità. Ora tutti si sono accorti di noi».
La chiave sta nella tecnica di base e nella ricerca costante del palleggio palla a terra. Lavora molto sui fondamentali e sulla tecnica in velocità?
«La differenza la fa la disponibilità dei ragazzi. Perché in genere si lavora molto col pallone nel riscaldamento e poi qualche giovane al termine dell’allenamento resta in campo per migliorarsi. Qui di giovani ne ho tantissimi e quasi tutti fanno del lavoro extra alla fine di ogni seduta».
Sarri sulle orme di Sacchi e Zeman. Non serve aver giocato a grandi livelli per insegnare calcio.
«Aver giocato è sufficiente per avere delle basi, sensazioni da spogliatoio, saper entrare nella testa di un giocatore. Quindi non serve esser stati per forza dei campioni. La gavetta è importante, ti porta a fare un lavoro sempre migliore e l’esperienza ti fa crescere sotto tutti i punti di vista. Poi, certo, ci sono le eccezioni come Guardiola: ha smesso di giocare e si è subito imposto tra i migliori tecnici del mondo. Però, ripeto, è un’eccezione. Non la regola».