(M. Sorio) È ufficiale: con quella boccuccia (e quei contratti a percentuali interstellari) Mino Raiola può dire ciò che vuole.
Anche questo: «L’unica cosa buona della Fifa di Blatter è il videogioco: deve essere più trasparente». E quindi? «Mi candido alla presidenza, anche se sarò come un elefante in una cristalleria!». Alla Totò: vota Mino. Il sultano del calciomercato, 47 anni, già soprannominato in tutte le maniere – “principe dei pupari”, “pizzaiolo arricchito”, “furbacchione” (Galliani) – parla cinque lingue (male, secondo qualcuno), cerca l’appoggio di altrettante federazioni, ha già contattato 20 leghe mondiali e sborsa 5 milioni per la propria candidatura. Raiola s’è fatto il nome facendosi gli affari degli altri. Da vocabolario: “Mediatore”.
C’è il club, c’è il campione e in mezzo c’è lui, natali a Nocera Inferiore, figlio di pizzaioli italiani emigrati in Olanda, praticante assiduo della fede nel dio denaro. Gli affari come show. In principio fu Nedved e il ratto di Praga. Poi Ibrahimovic, spostato di qua e di là, sempre al rialzo e sempre con ingenti guadagni per tutti. Quindi Balotelli al Liverpool, dall’ennesima ultima spiaggia all’ennesimo ultimo affare: i casini, fra le sue mani, diventano oro. Raiola controlla sempre il meglio dell’argenteria (vedi Pogba). Ed entra in scena sul più bello, cucendo affari nella penombra, smontandoli sotto gli occhi del pueblo. Centravanti di sfondamento, ha attaccato tutti: Conte, Allegri, Prandelli, Tavecchio, piazza affari (“non si può fare mercato in quest’albergo di merda”, era l’inverno scorso, diretta su Sky). Ora la Fifa. Perché al Mino, tranquilli, non c’è mai fine.