(G. Dotto) Fuori anche dalla Coppa Italia. Per mano di Montella e piede di Gomez. La gatta buia della Roma continua. Era iniziata all’Olimpico con i lanzichenecchi di Guardiola. Uno stupro in piena regola. E’ un fatto. Quella sera si è consumato un dramma ordinario e straordinario. La trama/trauma dello specchio infranto. La storia di Dorian Gray. La cornice che contiene l’inganno va in pezzi. Lo scarto tra quello che credevi di essere e quello che scopri di essere. Il Gregor Samsa che si scopre insetto in Kafka.
Fa tutta la differenza del mondo. Trascina il peggio e la cattiva sorte. Uno stato psichico insinuante, che non parla di sé, non bussa alla porta, non si presenta tipo: “Buongiorno Trigoria, piacere, io sono il verme che ti mangerà”. Credersi belli, meglio ancora onnipotenti, è l’anticorpo più forte che c’è.
La sera di Manchester, quando domina il City, la Roma costruisce il suo inganno. Su questo scheletro di oggi, improvvisamente infragilito, si erano già abbattute sciagure sparse. La perdita di Strootman, quelle quasi simultanee di Benatia e Castan, i tre lupi mannari della squadra. E ora Gervinho, l’Imprescindibile di Garcia. Nainggolan non compensa il Pjanic che non diventa mai corpo. Il Maicon evaporato è incompensabile. Togli alla Juventus Bonucci e Chiellini, invecchia Buffon, togli di mezzo Pogba per un anno e Tevez per un mese e mezzo.
L’ambiente. Il veleno come alimento, la negatività come libido, dentro una città talmente bella e larga nel dispensare doni che non ti dà mai la sensazione della tragedia incombente, ma solo del pettegolezzo assassino, della mormorazione letale. Gli avvoltoi che prosperano sul senno di poi.
Rudi Garcia vaticina lo scudetto. “Temerario!”. Forse una divinità misteriosa ha punito il suo peccato di superbia. Ma è solo il capo del branco che dice: “Roma, lo scudetto deve essere il tuo destino permanente, non una festa ogni vent’anni”. La parodia del gladiatore, questa è Roma. Francesco Totti che, sul 2 a 2, si fa il selfie, invece di portare rabbiosamente la palla al centro e urlare: “Andiamo a prendercelo questo derby”.
Manca a Trigoria la presenza di un leader indiscutibile. Un capo. Ma sì, un presidente alla Dino Viola, grandissimo lui. Uno capace di tenere insieme tre personalità forti, tre teste notevoli ma difformi, come Baldissoni, Sabatini e Garcia. James Pallotta, pianta la tua tenda a Trigoria, almeno per un semestre.
Walter Sabatini, l’intelligenza fatta parossismo, il bucaniere nel suo caveau fumoso, nel suo circo solitario, che gioca il suo match personalissimo con una vita in bilico, mica perché fuma come un ossesso e pesca l’aria da polmoni sempre più stanchi, ma perché questo è lui, un uomo sempre in bilico.
Da Baldini a Baldissoni resta la radice, ma siamo passati dal narcisismo dolente al narcisismo imperativo. Un uomo irrorato giorno e notte, come certe pompe di benzina cui si guasta il timer, dalla certezza di essere più intelligente di chiunque, anche di se stesso.
Rudi Garcia è un uomo solare e leale, paracadutato da una visione di Sabatini in una Trigoria che non va compresa, interpretata, mediata. Va domata. E frustata, se serve. Vedi Fabio Capello. Garcia soffre, quasi fisicamente, la prevalenza delle ombre, il primato del non detto. Garcia è lo straniero meno idoneo a vivere il quotidiano di Trigoria. Per questo, se ce la farà, sarà la sua impresa più grande.
“Dobbiamo violentarci”, ha detto magnificamente ieri sera. Deve cominciare a violentare se stesso. Meno mediazioni, meno concessioni. Un esempio? Quanti punti sono costati a questa Roma lo scontro, prima strisciante, poi frontale, tra staff medico e preparatori?
I giocatori? Sono ragazzi. Non chiediamogli quello che non possono essere. Inutile e stupido mortificarli con la gogna del richiamo della curva. Sono quello che sarebbe chiunque di noi al posto loro, con la loro età e il loro conto in banca. Ragazzi che fanno fatica a capire la grande bellezza di diventare eroi di una città (quasi intera) che immagine l’esultare una volta ogni vent’anni come un regalo della sorte. Un incidente del destino, invece che il destino stesso.
FRANCESCO TOTTI. FARSI FUORI PER SCRIVERE LA STORIA PERFETTA.
Di norma si uccide il padre. In certi casi è indispensabile uccidere il figlio. Quando si scrive che Francesco Totti è il miglior giocatore della storia della Roma si pecca per difetto. Totti è il miglior giocatore italiano di ogni tempo. Tecnica, potenza, tocco, istinto, tiro e assist. Mai visto niente di simile, se non pescando nel sancta sanctorum degli otto, dieci di sempre. Lo sanno i romani(sti) più degli altri, ma questo è un problema degli altri.
Ma oggi, Totti, anche il Totti sublime del derby, quello che s’inventa un gol strapazzando le leggi della (sua) fisica, di un quasi trentanovenne sempre più ancorato alla legge di gravità, che miracolosamente pesta dentro ritmi ed esuberanze fisiche per lui proibitive, di gente che potrebbe essergli figlia, il Totti di oggi che i tifosi amano ancora più che mai, ma svenati dal dubbio che avanza: questo Totti è diventato un problema per la sua Roma.
Ad essere esatti, sono un problema reciproco. Sono prigionieri l’uno dell’altro. Totti e la Roma. Che non è mai libera d’immaginarsi senza Totti. E, invece, deve cominciare a farlo, da subito.
Bello sarebbe pensare l’ultimo derby come il suo canto del cigno, prima che il cigno diventi pietra. Già presento i tamburi di guerra. Ma come? Il Garcia italianizzato, la pareggite e ora la sconfiggite che avanza, e tu mi tocchi l’Intoccabile? Il punto è questo. Immaginarsi senza il suo Dio stanco, è l’unica strada per immaginarsi un domani oltre che uno stadio.
Il problema della città romanista, a cominciare da trombettieri gregari e ruffiani, è l’incapacità di separarsi dall’ovvietà del Mito, di concedersi a un lutto troppo grande. E, allora, lo si vuole differire il più possibile. Questo ammazza la Roma.
Nel suo di dentro, Totti questo lo sa, che i tifosi non riescono a immaginarsi senza di lui e lui senza di loro. Totti oggi è un grande problema. Lo è nella spietata legge del tempo che tutto divora. E, come sempre, quando c’è di mezzo l’affetto, lucidare uno sguardo spietato è un’impresa.
Il Totti di oggi toglie più di quanto riesca a dare. Guardate quante volte, anche ieri, sempre, i compagni più giovani si affrettano a dargli palla, appena ne intuiscono la sagoma imperiosa, anche quando non è in condizione di riceverla, quando l’avversario è già li a pestargli l’ombra, e puntualmente lo sovrasta. Quante palle perdute, in tutti i sensi possibili, perché Totti in campo è un magnete che offusca, un richiamo totemico che confonde e rallenta.
La stessa “trovata” del selfie cos’è, se non una formidabile invenzione mediatica dentro una cornice che non era più il derby ma il rapporto d’amore pagano tra Totti e la sua gente?
I romanisti rischiano l’idolatria per l’uomo, che è la degenerazione del tifo per la propria squadra. Rischiano di amare Totti più di quanto amino la Roma. Immortalandosi con la sua gente alle spalle, Totti ha fissato iconicamente con un gesto mondano un rapporto sacro.
Immaginare una Roma senza Totti è troppo per farlo sino in fondo. Dovrà essere lui, Francesco ad aiutare l’impresa, facendosi da parte, consegnandosi così a una grandezza assoluta e a una storia perfetta. Immaginarsi altro da quello che è. Immaginare la sua fine da calciatore. Il più grande atto d’amore romanista.
Fonte: dagospia.it