(E. Sisti) – Sta prendendo forma un lungo addio, addio alle speranze, ai sogni, a ciò che è stato. È una strada disseminata di malinconia per un passato di qualità, si teme, definitivamente perduto, di fischi dei tifosi inferociti per i supercontrolli della polizia («comprendo la loro delusione », ammette Garcia) ma anche per un presente inaccettabile che fa sbottare persino un pezzo di pane come Florenzi («sono confuso, non so più quale sia il mio ruolo»), di dubbi per un futuro “bostoniano” impalpabile, vagamente surreale. Nella Roma della disarmonia e del «buon anno» scritto in cinese sulle maglie (in Cina festa da giovedì), nella Roma che aspira a una visibilità planetaria ma pareggia con l’ultima in classifica, sono finite le certezze.
I passi falsi della Juve sono irrilevanti, illudono. Una squadra sparita, tragicamente “normale”, dove darsi una mano non va più di moda, non si corre, si aspetta che sia sempre un altro a risolvere o inventare. Dal mito del recupero palla fulmineo e delle densità mirate, dal piombare sempre primi sulle palle vaganti, la Roma sta sperimentando l’opposto: un’involuzione tattica e una perenne crisi fisica. Il compagno spesso è un estraneo, i ritmi sono impietosi. Ieri la Roma senza luce, oltre che senza Totti e Pjanic, da tempo in calo, ha cercato con ogni mezzo di somigliare al Parma, il bruscolino della serie A. Offrendo solo due palle-gol Donadoni ha vissuto una giornata dignitosa. Senza il crisma della velocità, De Rossi, Nainggolan e Keita equivalgono a Mauri, Mariga e Nocerino.
Senza un’intensità sistematica e motivazioni ridotte, Belfodil può giocare meglio di chiunque si presenti a fare il centravanti nella Roma. Rasentando la mediocrità consapevole degli emiliani, i giallorossi sono precipitati in un imbuto, paralizzati anche da una banale conta numerica in rapporto agli spazi: se non corri il 4-3-3 provoca risibili ammassamenti di truppe che guardano sempre dalla parte sbagliata, spalle alla porta (appena meglio col 4-2-3-1 dopo l’uscita di De Rossi). Non trovando mai aria respirabile, perché mal cercata, la Roma si sta negando come collettivo. E la reattività è prossima allo zero: per calciare in porta (23’ pt) Gervinho ha impiegato lo stesso tempo che gli ci è voluto per tornare dalla Guinea Equatoriale. A parte un tiro dello stesso Gervinho respinto da Mirante (13’ st), una mezzo rovesciata di Nainggolan (27’ st) e uno slalom di Ljajic (42’ pt), la Roma ha schiumato pallone di basso livello sino ad ammalarsi di rabbia.
Una rabbia impotente che nemmeno Daniele Verde, ancora una volta il migliore, l’unico con le gambe vive, ha potuto cancellare: è entrato tardi perché Garcia s’era illuso che Gervinho e Doumbia, impresentabili per motivi diversi, potessero aggiungere almeno entusiasmo dopo il trionfo in Coppa d’Africa. Si sbagliava. Gervinho era lento e al tempo stesso isterico, Doumbia pareva già vecchio e artrosico (per due volte nel secondo tempo non è riuscito ad allungarsi con le gambe e con la testa, come preda di ataviche ruggini). Nel vagare di questa Roma regredita all’unisono, distante, uno dei migliori è stato Cole, suo l’incrocio dei pali al 38’ della ripresa dopo che Doumbia era andato a vuoto. E che l’inglese svetti, e che ogni volta Verde sia praticamente costretto a travestirsi da Maradona, è la riprova che il resto, piaccia o no, non c’è. Più.