(E. Sisti) – AL 9’ della ripresa il francese Turpin caccia Te Vrede per un fallaccio su Manolas. La Roma aveva segnato con Ljajic nel recupero del primo tempo. Era stata una Roma coraggiosa, piccola fiammiferaia pronta a illuminarsi, che aveva provato a cambiare pelle, aveva tentato con ogni mezzo di rifilare uno schiaffo alla malinconia che da tempo le sta invadendo l’anima, era garibaldina, piena di ragazzi confusi ma capaci di lottare, che perdevano palloni ma non la testa, abbastanza vivi e abbastanza compatti da obbligare il Feyenoord a mostrare le sue giovanili e baldanzose miserie, una squadra di soli muscoli e di sola anagrafe.
Dopo l’espulsione esplode la rabbia (ingiustificata). Dalla tribuna bassa, proprio sopra le panchine, inizia un fitto lancio di oggetti, piove di tutto, soprattutto ombrelli: nel primo tempo dalle parti di Gervinho avevano lanciato una banana gonfiabile. L’arbitro manda tutti negli spogliatoi. Sullo schermo avvisano: è in corso una riunione dell’Uefa. Si annunciano dieci minuti di sospensione cautelativa. L’altoparlante invoca la calma: «Tifate e basta». L’atmosfera è agghiacciante, per qualche minuto l’unico rumore è il vento che fa vibrare le centinaia di metri di rotoli di carta bianca, poi il pubblico giallorosso intona «Roma Campione!», allora gli olandesi si ricordano di non essere muti e replicano come possono, ma è evidente che tutto lo stadio è sotto choc. Tornano le squadre.
Nel tunnel l’arbitro aveva avvertito assistenti e commissari: «Al primo lancio di un solo oggetto sospendo definitivamente la partita». La Roma tarda a risistemarsi. Appena entrato, Manu trova un corridoio assurdo al centro della difesa giallorossa, qualcosa di vuoto che non è ammissibile nel calcio degli spazi stretti, impensabile se uno vive e gioca concentrato. Pareggio inatteso e un po’ folle, in prospettiva Roma (12’ st): essendo piccolo il Feyenoord crede a quel punto di aver scollinato. Il pubblico torna feroce. Non Nelom, ancora emozionato per la qualificazione appena riaperta, che si perde Torosidis: il cross è basso e teso, i centrali olandesi guardano il pallone sfilargli davanti, come fosse una patata bollente. Gervinho raddoppia (15’ st). Ora la Roma comincia a sentirsi un po’ più dentro, il Feyenoord più fuori (dovrebbe segnare altri due gol). Dietro la porta di Skorupski l’addizionale di porta Fautrel deve allontanarsi dagli spettatori che continuano a bersagliarlo.
Ma le squadre sono lunghe e sbadate. Ljajic non completa un contropiede di Gervinho, Manu spara su Skorupski. Il Feyenoord esprime solo affanno. Arrampicandosi sullo specchio gelido della paura (uscire avrebbe significato precipitare in un imbuto dantesco senza fondo), la Roma è agli ottavi e lo deve a Ljajic, al serbo che mentre la Roma annaspava, nei giorni delle lunghe ombre, dei pareggi, delle incomprensioni e dello scollamento, era l’unico a correre senza palla, come se solo lui avesse ancora fede. Lo deve a Totti, generoso e ovunque, che ha rischiato di segnare col cucchiaio (14’ pt). A Torosidis che ha fatto due assist. A Gervinho che ha ritrovato il sorriso della velocità. A Garcia che ha avuto il coraggio di lasciare in panchina Nainggolan. Ma soprattutto lo deve alla prima manifestazione di gruppo espressa quest’anno: la voglia di non sparire. Ieri la Roma si è scrollata di dosso la polvere del sospetto d’essere condannata a un lento tramonto senza colori. Nella notte in cui passano 5 italiane su 5, ha giocato da adolescente non rassegnata. In cerca della sua primavera.