(M. Cecchini) Per avere una idea di cosa rappresenti nel mondo dello sport questa elegante statunitense che – seduta davanti a noi – ci sorride gentile, basti ricordare ciò che ha detto qualche tempo fa Philip Knight, cofondatore della Nike: «Dei tanti atleti con cui abbiamo collaborato, solo tre hanno portato la propria disciplina in una nuova dimensione: Michael Jordan, Tiger Woods e Mia Hamm». Nessuna meraviglia. La Hamm, 42 anni, da ottobre cooptata nel Cda della Roma – a cui domani prenderà parte per la prima volta – è stata la più forte calciatrice di tutti i tempi. Un’attaccante che a 15 anni era già in Nazionale per poi segnare 158 reti in 275 partite. Quanto basta per vincere in 17 anni, 2 Mondiali, 2 ori e un argento olimpici, entrando di diritto nella lista Fifa dei 125 migliori calciatori di ogni epoca, lista che – oltre a lei – comprende solo un’altra donna (Michelle Akers, Usa).
Signora Hamm, come ci si sente ad essere in compagnia di Jordan, Woods e il gotha del football?
«Be’, sono onorata, ma tutto ciò che ho fatto è stato solo per il mio Paese, i tifosi e il calcio».
Perché ha accettato la proposta di Pallotta?
«Ho pensato che fosse una grande opportunità far parte di uno dei più grandi club del mondo. Jim guarda sempre avanti. È uno che fa sempre ciò che pensa e dice. Vuole usare il passato di Roma, che ha una grande storia, per vivere nel presente e costruire un grande futuro. Ma non voglio essere solo un nome di richiamo: desidero portare la mia esperienza per fare crescere il club».
Fra poco ci sarà una sfida che per lei sarà una specie di derby del cuore, quello con la Fiorentina.
«In effetti da piccola ho vissuto quasi due anni a Firenze perché mio padre Bill si era trasferito lì per l’università, appassionandosi al football. I miei primi calci li ho tirati nelle piazze fiorentine. Il cuore diviso però sarà per papà, perché io ho i ricordi veri li ho dal 1990, quando andammo a vivere per un periodo a Roma e vidi qualche partita del Mondiale italiano».
E allora si sbilanci sulla sfida di Europa League.
«Sono sempre ottimista: ci saranno rivalità e rispetto, ma vincerà entrambe le partite la Roma per 1-0».
Ora però c’è la Juve: il suo ottimismo arriva anche a considerare ancora aperta la lotta scudetto?
«Si affacci fuori e veda come si allena la squadra: stanno preparandosi al massimo per vincere. Ho incontrato Totti e gli altri giocatori e li ho visti carichi. Quando hai vicino uno come Pallotta è normale: lui dà un’energia speciale».
I personaggi simbolo del calcio italiano attuale?
«Dico ovviamente Totti e De Rossi, ma anche Pirlo. In passato impazzivo per Baggio e Schillaci».
Flashback sul passato: i più grandi?
«Cruijff sicuramente, ho visto molti video su di lui, ma forse Maradona rimane il migliore. Vivevo in Texas e vedevo le sue gare su un canale messicano: non capivo molto le telecronache in spagnolo, ma era fenomenale. Il gol segnato all’Inghilterra al Mondiale 1986, rimane indelebile».
Il nostro calcio, però, ha perso i Maradona e nel frattempo si è ammalato di violenza e razzismo: qual è la cura?
«In campo non esiste discriminazione. Bisogna avere zero tolleranza per violenza e razzismo. Dovremmo educare i tifosi al rispetto perché lo vogliono tutti i giocatori del mondo».
Pur vivendo a Los Angeles, lei è nata in Alabama, uno degli stati Usa che spesso nel passato è stato associato al razzismo.
«Quando siamo andati via ero troppo giovane, ma le dico solo che i miei genitori hanno adottato due dei miei fratelli, uno dei quali è per metà thailandese e l’altro afroamericano. Nella gente io guardo la personalità, non il colore della pelle o la situazione economica. Papà e mamma sono stati d’esempio».
Quanto l’ha segnata la morte di suo fratello Garrett (per anemia aplastica, ndr)?
«Tantissimo. Era il mio idolo. E’ morto a 28 anni e mi ha aiutato ad essere la donna che sono oggi. Ha avuto influenza anche nella mia vita perché era grande atleta. Aveva umiltà, senso dell’umorismo e coraggio. Ha combattuto la malattia fino all’ultimo».
A proposito di problemi fisici, il paradosso è che lei è nata con una malformazione ad entrambi i piedi (il cosiddetto piede equino, ndr).
«È vero, nel primo anno di vita ho dovuto ingessarli per correggere il difetto, e mia madre mi racconta che piangevo ogni volta che dovevo cambiare il gesso».
Suo marito (il secondo, ndr) Nomar Garciaparra è stato una stella del baseball: è un vantaggio o un problema dividere la casa con un altro sportivo?
«Be’, avere un compagno così aiuta perché, quando eravamo in attività, se una partita andava male non potevamo dire: “È solo un gioco”. Entrambi infatti sapevamo gli sforzi che si fanno quando sei un professionista. Ci siamo dati sempre forza a vicenda, anche se (ride) mio marito ogni tanto preferirebbe che non conoscessi bene lo sport così da evitare di ricevere tanti consigli da me».
L’Italia è una delle patrie del calcio, perché il movimento femminile non riesce a decollare?
«Qui c’è una tradizione diversa. Occorrono successi per farlo decollare, non basta la curiosità. Ad esempio, l’Italia per l’ultimo Mondiale non si è qualificata ed è stato un peccato: ci dovrebbe essere più continuità».
Se fosse ancora calciatrice, da quale tecnico le piacerebbe essere allenata?
«Wenger e Guardiola, hanno stili differenti ma mi piacciono entrambi».
La sua popolarità negli Usa è così grande che le hanno dedicato una Barbie: le sue figlie qualche volta ci giocano?
«Ho due gemelle (Grace e Ava, 7 anni, più un maschio, Garrett, 3) che invoglio a fare sport, ma le assicuro che non hanno mai visto la mia Barbie. Sarò chiusa sicuramente in qualche scatola in giro per la casa…».