(G.De Bellis) – Questo bambino non ha eseguito un ordine. Tutti via, lui è rimasto. Da solo in mezzo al vuoto. Gli ultrà della Roma hanno appena urlato di abbandonare lo stadio per protesta contro la squadra che sta perdendo 3-0 in casa contro la Fiorentina negli ottavi di finale dell’Europa League. Si sono alzati in centinaia, lui no. È rimasto a guardare la partita. E forse non ha capito bene perché qualche mese fa, gli stessi che se ne sono andati, erano rimasti ad applaudire la loro squadra che perdeva 7-1 in casa in Champions League.
Umiliati e felici. Lui ha disubbidito o se ne è fregato proprio, mentre tutti gli altri più grandi e (teoricamente) più maturi hanno eseguito l’ordine. Anzi due: quello di abbandonare lo stadio e quello di rientrare, alla fine, per obbligare la squadra ad andare sotto la curva a umiliarsi, a chiedere scusa per la sconfitta. Soprattutto a mostrare al mondo che gli ultrà comandano. Quel bambino non è il simbolo di un tifo migliore, rispetto a uno peggiore. Forse diventerà come tutti gli altri che lo circondano, magari un giorno sarà quello con il megafono che guida gli altri come una massa pronta a farsi dire che cosa fare e che cosa no. Quell’immagine non è la sua vittoria. Lasciare lo stadio è un gesto ben più civile rispetto a quelli a cui gli ultrà ci hanno abituato. Avrebbero dovuto lasciarlo lì, però. Unico e solo, con il suo tifo e con la sua falsa speranza. Hanno perso rientrando soltanto per dimostrare di contare qualcosa: l’hanno nascosto, ne hanno fatto perdere le tracce, l’hanno trasformato in un termine di paragone. Esaltato suo malgrado. Normale a sua insaputa. Non ha vinto lui, hanno perso gli altri.