(M. Pinci) – Certe ali di cera non le scioglie il sole, ma il freddo dell’inverno, senza però che la caduta faccia meno rumore. Sul palco di un Roma-Juventus che l’Olimpico sperava diverso, si snoda una trama imprevedibile: superbia e punizioni dall’alto, ambizioni deluse e conseguenze da pagare. Attore principale sulla scena di questo inatteso dramma classico è Rudi Garcia. «Forse una divinità misteriosa ha voluto punire il mio peccato di superbia», dice il francese, quasi chinando il capo di fronte alla vendetta divina che lo ha affondato, costringendo la Roma in un limbo che le impedisce di vincere – in casa non lo fa dal 30 novembre – senza però piegarla all’onta della sconfitta.
L’allenatore aveva lasciato volare le ambizioni affascinato dal proprio sogno:«Sono certo che vinceremo lo scudetto», scandiva orgogliosamente un girone fa subito dopo la sconfitta indigesta dello Juventus Stadium. Oggi quelle certezze si sono dissolte facendolo cadere in un baratro profondo 9 punti che rendono tiepido il sole della vetta. Sembra quasi voler evocare Garcia l’ hybris di ispirazione classica: quella presunzione di forza che nella tragedia greca offende gli dei e ne arma la vendetta. Suggestivo abbastanza per nobilitare il più classico dei confronti al vertice della nostra serie A, malinconicamente spogliato della veste di sfida scudetto.
Impossibile sapere se nella sua Nemours andasse di moda il mito classico: certo però Garcia deve aver avuto la sensazione di trovarsi vittima di una ritorsione, se non di antichi dei capricciosi, almeno di una sorte beffarda. Quasi inevitabile allora cedere a una revisione di quell’attacco di superbia. Senza però rinnegarlo fino in fondo: «Se ho detto quelle cose non è perché sono stupido, ma per risollevare un ambiente depresso in cui si diceva “possiamo fare qualunque cosa ma tanto non vinceremo mai”, per mantenere alta l’ambizione».
Impossibile sapere se nella sua Nemours andasse di moda il mito classico: certo però Garcia deve aver avuto la sensazione di trovarsi vittima di una ritorsione, se non di antichi dei capricciosi, almeno di una sorte beffarda. Quasi inevitabile allora cedere a una revisione di quell’attacco di superbia. Senza però rinnegarlo fino in fondo: «Se ho detto quelle cose non è perché sono stupido, ma per risollevare un ambiente depresso in cui si diceva “possiamo fare qualunque cosa ma tanto non vinceremo mai”, per mantenere alta l’ambizione».
I più maligni noteranno che il portavoce di quel punto di vista per cui non valeva la pena sfiancarsi, «tanto la Juve fa un campionato a parte», era Francesco Totti: ma l’obiettivo di Garcia più che il capitano è la piazza scettica che lo accompagna mugugnando da mesi e che ha trasformato l’Olimpico «in un ambiente non più tranquillo per noi». Devono suonargli ancora nelle orecchie i fischi assordanti raccolti nelle ultime uscite domestiche, quello sì vero e proprio atto di sfida – se non di sfiducia – verso l’allenatore, che colta l’aria ha iniziato a farsi prudente: «La Juventus è la più forte del campionato, lo dice la classifica, e anche battendola non saremo padroni del nostro destino. Il nostro destino, oggi, è solo continuare a difendere il secondo posto per sperare di attaccare il primo». Strano a dirsi, ma alla fine a non voler parlare più di scudetto è proprio Garcia: «Se mi chiedete di nuovo se sono pentito di aver detto che avremmo vinto noi ghigna – giuro che vi mando a quel paese». E per farlo, non avrà bisogno nemmeno di precarie ali di cera.