(M. Iaria) «Non è strano quello che ha detto Pallotta a proposito degli ultrà. Quelli strani siamo noi, ormai assuefatti al clima che si respira dentro gli stadi e fuori». Damiano Tommasi sposa la tolleranza zero del presidente della Roma. Ed è una presa di posizione non da poco, visto che lui è presidente dell’Aic, l’associazione dei calciatori spesso vittime e bersagli di intimidazioni e violenze, o peggio compiacenti di fronte a certi energumeni. Insomma, parte in causa a pieno titolo nelle azioni di contrasto a un fenomeno che in Italia non si riesce a debellare. «Chiedevamo da due anni di far parte dell’Osservatorio sulla sicurezza del Viminale. Ultimamente veniamo invitati sempre: vogliamo capire, dare il nostro contributo».
Cosa va fatto per evitare scene pietose come la gogna sotto la curva sud dell’Olimpico dopo Roma-Fiorentina?
«Intanto si sta discutendo di una nuova norma da inserire nel codice di giustizia sportiva per vietare questo tipo di comportamenti. Siamo favorevoli perché una cosa è avere una simbiosi tra squadra e tifosi, un’altra dover rendere conto a qualcuno del proprio lavoro.Tra multa e squalifica ai tesserati io opterei per la seconda, che è più disincentivante. Ma l’aspetto sanzionatorio non basta».
Cioè?
«Bisogna rendere i calciatori consapevoli del loro ruolo. Certi gesti, come quello dei giocatori del Padova di lasciare le maglie agli ultrà dopo una sconfitta, sono devastanti, hanno un effetto boomerang sull’opinione pubblica. Vanno evitati. Ecco, i calciatori devono acquisire una responsabilizzazione diversa: vanno informati, tutelati».
Qual è la sua ricetta?
«I rapporti tra i tifosi e le squadre devono essere normalizzati, all’estero nessuno si sognerebbe di fare ciò che si fa in Italia. È ovvio che i calciatori da soli non possono far nulla. Ognuno deve fare la sua parte: le società, chi gestisce l’ordine pubblico. Non mi arrendo all’idea che da noi vengano considerati fisiologici comportamenti che altrove non hanno cittadinanza».
Parla come Pallotta.
«Ha espresso concetti sacrosanti. Chi come lui non vive il calcio italiano da tanti anni, non è ancora assuefatto a questi fenomeni ed è portato a reagire così. È come la persona che entra in una stanza, sente l’aria viziata e chiede di aprire la finestra: chi sta dentro non ne ha percezione. All’estero il tifo si vive in maniera completamente diversa, da noi lo stadio diventa il luogo dove perseguire altre finalità che non sono quelle del tifo e della festa. Comunque non bisogna personalizzare la battaglia di Pallotta contro il tifo violento».
Perché?
«Perché è una battaglia che serve a tutto il sistema. Il beneficio sarebbe per l’intero movimento se gli spettatori potessero recarsi allo stadio senza alcuna preoccupazione, in un clima non inquinato da violenza e voglia di prevaricazione. E sarebbe un beneficio anche in termini economici: l’appeal degli altri Paesi si misura anche da questo fattore. Quando faremo il salto di qualità, non ne trarrà vantaggio il singolo club o il singolo calciatore ma tutti quanti».
Ma quello di Pallotta rischia di essere un gesto isolato?
«Certo, il timore è che questo non venga percepito come un problema. C’è un rapporto distorto tra squadre e certe tifoserie. Ma sono ottimista: sarà un processo lungo e doloroso, tutti però devono capire che la strada è segnata e non si può tornare indietro».
È d’accordo ad abolire gli striscioni, dopo la scritta contro la mamma di Ciro Esposito?
«Risolverebbe il problema di certe frasi dove si tira fuori il peggio di noi, o di certi messaggi in codice da parte di chi usa lo stadio per qualcos’altro. Tuttavia, ci sono striscioni ironici e goliardici che sono entrati nella storia. Sarebbe un peccato vietare anche quelli».