(P. Mei) – Lo stadio Olimpico vivibile non è una buona idea: è ottima. È quella che, stringendo il ragionamento, sostiene James Pallotta, un bostoniano e un americano di Roma, due film completamente diversi giacché diverso ne è l’animo, dalla raffinata regia di James Ivory al «facce Tarzan» di Albertone. Pallotta contro gli ultrà è una lettura piuttosto generica della vicenda.
Perché prende a prestito una versione della fenomenologia dell’ultrà ristretta all’aspetto deteriore. Il presidente della Roma ha l’aria di prendersela, piuttosto, con qualche frangia minoritaria del tifo specie curvarolo giallorosso (è lì che batte il cuore, non dimentichiamolo: sono lì quelli che s’abbonano “a prescindere”, e non sempre le strutture che li accolgono allo stadio sono delle migliori, che pure questo è un parametro del quale va tenuto conto): uno stadio a misura di famiglia, dove si possa tornare con il pupo per mano, non è una fantasia ma deve essere una possibilità, pur se va sempre considerato che, come la rivoluzione, lo stadio «non è un pranzo di gala, non è un’opera letteraria, non è un disegno, non è un ricamo», per parafrasare Mao.
Dunque ben vengano iniziative che a questo portino, pur se si rimane sempre dell’opinione che lo sparo nel mucchio perché non si riesce ad identificare i responsabili (o colpevoli: ma nel caso, di quale reato?) è sempre un’ingiustizia, quale rimane la curva della Roma chiusa.E pure se, seguendo l’evoluzione globale, invece del bibitaro sarà lo sportello delle scommesse a dominare, e che tutto sia wi-fi “a gratis”.
È la faccia buona della medaglia, che, in questo come in tutti i casi, ha il suo rovescio. E il rovescio sono i rovesci della Roma. Perché è innegabile che il mugugno che cresce non è legato soltanto alla mamma di Ciro e al peggio della “filosofia ultrà”, ma, per la maggioranza silenziosa ma non troppo, piuttosto ai risultati della Roma, da quando ne prese 7 contro il Bayern in casa, da quando immeritatamente perse contro la Juve a Torino, da quando, svoltato l’anno, svoltò in negativo infilando una serie di risultati che l’hanno portata alla attuale situazione: fuori da ogni cosa ed a rischio, che oggi sarebbe realtà, di perdere pure l’accesso diretto alla Champions che verrà (soldi compresi) ed a vantaggio poi proprio della Lazio.
Non era questa la terra promessa ed è una considerazione che pesa assai sull’umore del tifoso, ultrà da stereotipo o meno, fucking idiot per dirla alla Pallotta o soltanto innamorato. Si può cambiare moglie ma non maglia (della seconda i casi si contano sulle dita di una mano), e il tradimento qui difficilmente si perdona. Oggi il popolo giallorosso si sente tradito e abbiamo imparato che la percezione di una cosa è più incombente della cosa stessa. Il chi sbaglia paga, fatto valere nel mucchio indiscriminato dei tifosi lasciati a casa, facendo pagare chi sbaglia e chi no, potrebbe-dovrebbe valere anche nel caso dei più facilmente identificabili erranti all’interno di società, squadra e quant’altro nell’orbita giallorossa.
La cultura sportiva è anche questo: rispetto degli avversari e delle regole e, nell’accettazione della sconfitta (se e quando) assunzione di responsabilità per la stessa dopo tanta annuncite, come si dice oggi, e nell’idea di Hillary Clinton, per restare in America, di essere «champion for everiday americans», campione per gli americani d’ogni giorno. Qui per i romanisti d’ogni giorno, che lo intravedevano già quest’anno e che sono accecati dalla delusione per una squadra scombiccherata (qual era la Roma quest’anno?), due mercati che anziché arricchire la rosa l’hanno impoverita e invecchiata, una sala d’aspetto del pronto soccorso sempre troppo affollata, e qualche ragione ci sarà oltre la sfortuna.