(L. Valdiserri) – Gli stranieri ci invidiano alcune cose e tra queste ci sono il clima, la storia, le bellezze artistiche e naturali, la buona tavola. Roma, capitale d’Italia oggi e del mondo conosciuto un tempo, occupa un posto centrale in questo grande luogo comune sintetizzabile con una formula: «la grande bellezza». Abbiamo la fama di popolo non sempre affidabile, con un senso del dovere intermittente, ma capace come nessun altro di godersi i piaceri della vita. E poi c’è il calcio. Nel calcio – e il derby ne è senza dubbio la sublimazione – avviene una mutazione genetica che ci trasforma. È meglio vincere con un gol in fuorigioco piuttosto che aver dominato la partita. Il sentimento verso l’avversario è sempre l’odio e mai il rispetto. Il ricorso alla violenza fisica è una componente dello spettacolo.
Capita così che il derby romano non si possa giocare di notte, che servano duemila agenti per «blindarlo», che un intero quadrante della città venga preso in ostaggio, che la macchina del laziale Djordjevic venga circondata da ultrà romanisti a fine gara e, notizia di ieri, che un paio di ultrà laziali cerchi di aggredire Mapou Yanga-Mbiwa, colpevole di aver segnato il gol della vittoria nella stracittadina di lunedì. Nessuno pretende che gli stadi diventino chiese e gli ultrà seminaristi, ma è necessaria un’analisi su come Roma vive il derby e sul futuro di questa partita. Non è più una boutade l’idea delle autorità di farlo giocare a porte chiuse. Eviterà gli accoltellati e l’invasione di ultrà stranieri venuti a portare violenza formato esportazione? Renderà più sicura la vita dei giocatori? Difficile dirlo. Ma è impossibile andare avanti alzando le spalle e dicendo: è il derby…