(E. Mellone) E ci risiamo. La lazialità è così. Quando hai l’onore di essere parte di una grande comunità, che si chiama Polisportiva Lazio, che raggruppa decine e decine di differenti sezioni che ne fanno la più grande polisportiva europea, ente morale dal 1921, Stella d’oro al merito sportivo nel 1967, Collare d’oro al merito sportivo nel 2002, quando hai l’onore di appartenere a una storia eroica che comincia il 9 gennaio 1900, quando le colonne delle tua identità sono Silvio Piola e Fausto Coppi, quando puoi osservare le decine di medaglie d’oro e le centinaia di titoli vinti dagli atleti che gareggiano sotto le ali protettrici dell’aquila imperiale, sai che sotto il cielo esiste anche una terra sporca, e che la bellezza di questa appartenenza è troppo lucente e sgargiante per non essere insozzata e contaminata dalle faccende della bassa gente.
Ed è così, la storia laziale, ed è questa l’identità laziale: allenata alla Bellezza, forgiata alla sopportazione. Come il dio che in sé partorisce il figlio che prova ad avvelenarlo. Questo partorisce, nella fratellanza biancoceleste, un sentimento sano: un distacco imperturbabile, una distanza siderale rispetto alle sciagure che ogni tanto si abbattono sui 115 anni di storia e che alcuni, stupidamente, scambiano per cinismo o disillusione. No, la lazialità è un’identità forgiata nella sofferenza e nell’accettazione di ciò che spesso è troppo umano per essere autenticamente laziale. Il simbolo di tutto questo è la Lazio che vinse lo scudetto nel 1974: finiti i trionfi, arrivarono le tragedie. Ma il laziale sa che è questo il suo destino: guardare i bassi dell’inferno mentre stai toccando il cielo con un dito.
È un atteggiamento, uno stile, una visione della vita che consente, e che ha sempre consentito, di non montarsi mai la testa nei periodi fortunati e non sprofondare nell’angoscia e nei sentimenti popolani quando le cose non vanno per il verso giusto. Se c’è una storia grande che ti sorregge e ti abbraccia, sai che gli scandali piccoli o grandi, le disavventure minime o eclatanti, sono poco più che cronaca. Arrivano, e passano, e assieme a loro trapassano, nel dimenticatoio, coloro che hanno provato a scalfire una gloria più che centenaria. Quegli altri, quelli che dal 1927 sono gli eternamente secondi, e che sono un incidente occasionale e secondario nella storia della Capitale, non lo capiscono. E ancora provano a rinfacciare, per dire, gli undici anni di serie B del calcio laziale. Ebbene, io ero ragazzino in quegli anni, e l’amore verso la squadra che nello stemma porta il simbolo delle legioni romane e i colori della Grecia olimpica ho cominciato a coltivarlo proprio quando era più difficile farlo. E come migliaia e migliaia di altre persone.
Nella visione laziale, conta più il gol di Giuliano Fiorini in Lazio-Vicenza che lo scudetto vinto nel 2000. Siamo fatti così. Con orgoglio, come educatamente e naturalmente impone la fratellanza laziale. Sempre agli stessi dirimpettai devi poi stare a spiegare che tu non idolatri nessuno, che i re di Roma esistono solo nella testa degli illusi, e che tu tifi una maglia e quello che incarna, perché quella maglia rappresenta sempre molto, molto di più di colui che ha l’onere di indossarla. Certo, sappiamo che la storia biancoceleste, nella potenza della sua manifestazione, contiene in sé, come molte volte è stato detto, una sorta di maledizione. È una grande storia costellata di piccole storiacce che, guardacaso, si affacciano e manifestano quasi sempre nei momenti in cui la gioia sembra potersi impadronire della tua fede sportiva. Possano essere una malattia, un proiettile sbagliato, un’inchiesta, un’indagine, un tradimento, un traditore, le disgrazie arrivano sempre.
A ricordarti che non puoi mai lasciarti andare alla smodatezza, alla tracotanza, al «semo li mejo» perché questi atteggiamenti non ti appartengono, e nemmeno ti sono permessi. Hai fatto una scelta di campo, hai deciso anche tu di caricarti sulle spalle un piccolo pezzo di questa storia eroica e dolorosa, che nessuno può scalfire, indebolire o mettere in discussione. E dunque, quando arriva una tempesta, l’ennesima tempesta, senti le scosse ma senti che la roccia su cui poggi è più forte del tramestio delle onde che si agitano sotto. L’aquila è Roma, e tu voli sempre più in alto di ogni nefandezza.