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REPUBBLICA Gli italiani? Solo in B. In serie A non c’è posto

Federico Viviani, capitano del Latina
Federico Viviani, capitano del Latina

(M. Pinci) – Nell’immaginario comune dovrebbe essere una sorta di serbatoio per le grandi. Da qualche anno però sembra piuttosto un esilio. Il campionato di serie B, il campionato degli scandali, delle partite comprate e vendute, del calcio scommesse, è soprattutto il campionato dei calciatori italiani. Lì dove non batte il sole della serie A, troppo impegnata nell’applicare freneticamente la vocazione all’import, germogliano talenti senza che nessuno o quasi nelle grandi città se ne accorga. In A il 55 per cento dei giocatori viene da fuori, Conte fatica ad ogni convocazione un po’ di più per trovare nuovi talenti utili a ravvivare il suo azzurro sbiadito. In B non guarda nessuno di loro, eppure qui il 72 per cento dei protagonisti è fatto in casa: dei 660 giocatori scesi in campo, 476 sono a tutti gli effetti eleggibili per la Nazionale. Quasi superfluo dire che nelle ultime chiamate, però, non ce ne fosse nemmeno uno.

In fondo il campionato non è finito in copertina per le loro prestazioni, ma grazie ai “treni del gol” di Pulvirenti, presidente del Catania arrestato martedì. Il club siciliano si è salvato soltanto nel finale di stagione e grazie alle telefonate su cui oggi indaga la procura catanese. Ma è anche- lo dicono i numeri – il meno avvezzo a valorizzare i ragazzi cresciuti in Italia: ne ha impiegati appena 18 nell’ultima stagione a fronte di un esercito di stranieri, 22, spesso presi e gettati via (11 sono stati ceduti soltanto nel mercato invernale) nell’ansia di recuperare disperatamente posizioni di classifica. Eppure il movimento va in senso inverso puntando sul vivaio e sul prodotto locale: la metà delle squadre, 11 su 22, hanno impiegato meno di 10 calciatori arrivati dall’estero: Frosinone e Carp, dalla Lega Pro alla promozione nella massima serie hanno sempre fatto affidamento su giovani di prospettiva coltivati e lanciati nel grande calcio. Ma anche Vicenza e Avellino, Brescia e Modena, Pro Vercelli e Trapani, Entella e Lanciano hanno seguito strade analoghe. C’è poi chi dell’orientamento di massa ha fatto quasi una religione: il Cittadella, con una politica al limite dello sciovinismo, è retrocessa affidandosi a 26 giocatori italiani su 27: uno solo lo straniero sceso in campo con la maglia granata, il polacco Kupisz arrivato in prestito dal Chievo Verona e protagonista con 19 presenze e 4 reti da gennaio a giugno. In tutto, 46 i paesi rappresentati, con dominio assoluto del Sudamerica: 24 i rappresentanti del Brasile, poi Argentina e Uruguay con 18.
Insomma, è chiaro: tra i cadetti giocano più italiani che stranieri. Non solo. Ogni italiano gioca in media più partite di un collega straniero, 19 contro 16 in favore dei calciatori di casa nostra. Giovani, a volte giovanissimi, atleti formati, vecchi leoni: l’ultima stagione ha lanciato ventenni come Lasagna e Masina, valorizzato ragazzi in rampa di lancio come Sabelli o Verre e più maturi come Siligardi o Di Gaudio, Melchiorri o Di Gennaro. Ghettizzati tra i cadetti in attesa di una chiamata dall’alto che faticherà ad arrivare, perché per farsi notare troppo spesso non basta nemmeno fare bene: di Sepe o Zappacosta le grandi si sono accorte solo dopo un anno da protagonisti in serie A, tanti altri restano invece esiliati in un campionato periferico. Eppure c’è chi ha scelto di tornarci: per informazioni chiedere ai trentenni giramondo Donati e Cacia, ieri ai margini nel Verona, oggi rigenerati a Bari e Bologna, domani chissà. Anche retrocedere a volte può diventare l’occasione per rinascere.
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