(T. Carmellini) – Roma è l’unica piazza dove il campionato finisce dopo novanta minuti (giocati obbiettivamente non granché) e un pareggio su un campo rognoso come quello di Verona. Probabilmente se Rafael non avesse fatto il fenomeno adesso si starebbe parlando di altro, ma è anche vero che se lo stesso portiere del Verona non avesse commesso la «quaglia» che ha riportato sul pari i giallorossi ora saremmo davvero alla tragedia greca.
Roma è una piazza così, con i suoi eccessi e le sue follie: dopo i sei gol al Siviglia si correva con lo scudetto già in tasca, oggi c’è chi vuole cacciare Garcia. La verità, come spesso accade in questi casi, sta nel mezzo. Sta nella lentezza imbarazzante di una squadra ancora lontana anni luce dalla forma migliore, nella mancanza di affiatamento di un gruppo che si ritrova a giocare in attacco senza il suo consueto leader e che, con un attaccante «vero» di peso lì davanti, non ha ancora capito come deve metterlo in moto. Chiaro come ci siano, oltre all’aspetto fisico, anche problemi di altro tipo: tattici e di scelte. Quello tattico già detto attiene a Dzeko con il quale i movimenti devono cambiare: le mille palle dentro dalle fasce che la Roma produceva lo scorso anno per «nessuno» adesso tornerebbero davvero utili. Di scelte perché il pre-campionato aveva mostrato uno Iago Falque in grande spolvero che però ha dovuto poi cedere il posto, alla prima uscita ufficiale, al «vecchio» Gervinho: giocatore voluto e sostenuto (a tutt’oggi) dal tecnico (e pare solo da lui) a discapito di Iturbe (che la Roma gioco forza sarà costretta a rimettere sul mercato). Il messaggio è chiaro: le scelte le fa il tecnico che ne risponderà personalmente. Anche se la distonia tra chi compra i giocatori e chi li manda in campo appare, sul caso Gervinho, lampante. Però magari, prima di metterlo in croce, diamogli il tempo di sbagliare.