(F.Intorcia) – In una notte lunga e maledetta, Daniele De Rossi è tornato alle origini nel bene e nel male, riannodando vizi antichi alle solite virtù. Sostiene Esopo che nessuno sfugga al proprio destino, ma nel caso del romanista i destini sono due, come i personaggi, come i copioni da recitare, ed è come se l’uno non possa stare senza l’altro, e la metà buona non riesca a liberarsi, ammesso che lo voglia, di quella cattiva: pupo e bullo, leader e zavorra, fuoriclasse e monello.
Viaggiando nel tempo, De Rossi si era ripreso ieri la maglia da titolare, per la sua partita numero 101 in azzurro, a Palermo dove tutto cominciò: era il 2004, s’affrontava la Norvegia, lui si presentò con un gol, il primo dei 17 in Nazionale, contabilità appena aggiornata che fa di lui il centrocampista più prolifico nella storia dell’Italia e pure il miglior realizzatore fra quelli in attività, in questi tempi bui in cui gli attaccanti azzurri non segnano più (al secondo posto, Pirlo con 13). Ma De Rossi era risalito anche a Italia-Olanda, la prima di Conte: pure lì, aprì il ciclo del nuovo ct segnando un rigore e vestendo anche la fascia di capitano. Poi, fra infortuni e bocciature, non ha avuto molto spazio (quarta partita, ieri, conl’attuale tecnico), ma con i bulgari si è preso la responsabilità di tirare, due volte, il rigore più importante del cammino di questa Nazionale. «Hai voglia a cercare un altro Pirlo», aveva detto dopo Roma-Juventus: si riferiva ai bianconeri, certo, ma forse inconsciamente pure a se stesso, che era, e resta, il primo candidato a sostituire il Maestro.
Poi, però, il centrocampista di classe internazionale, quello che ha per idolo Gerrard e da Gerrard e gli inglesi è stimato assai, quello che detiene ancora il primato nella classifica degli stipendi di A, ha lasciato il posto alla controfigura stanca, che rimedia un fallo da Mitsanski (la provocazione come attenuante) e lo scalcia da terra, come i bambini sulla spiaggia di Ostia, tu colpisci me e io te, regoliamo la cosa qui, il resto può aspettare. Di duelli rusticani ne ha collezionati molti, di espulsioni pure (dieci nella Roma,7 dirette e 3 perdoppia ammonizione), ma ogni volta ritorna una sola immagine, il gomito alzato sul povero americano McBride a Kaiserslautern, la notte in cui l’Italia di Lippi pensò d’aver corso troppo e d’aver sbagliato a dare fiducia a un ragazzo di 23 anni. Lo stesso che poi, scontata la squalifica e tornato buono, si presentò in finale e segnò, pure lì, uno dei rigori del trionfo berlinese. E che, due Mondiali dopo, bacchettò da capoclasse il Balotelli immaturo e teorizzò la distinzione fra uomini e figurine.
Nella storia della Nazionale sono stati espulsi 38 giocatori, e i cartellini rossi sono 41: solo tre hanno ripetuto l’errore. Gli altri due sono Causio e Antognoni, pure loro campioni del mondo, una volta insieme contro il Lussemburgo nell’80. Conte assolve tutti, ma a lui riserva un «non lo deve fare: peccato perché De Rossi stava giocando ottime partite ed era importante per lui anche psicologicamente». Ma c’è sempre un passato che torna a perseguitare il romanista. Buffo, per uno chiamato Capitan Futuro. Il soprannome non gli è mai piaciuto.