(A. Angeloni) – Antonio Conte un anno dopo. Dal novembre di Marassi al novembre del Dall’Ara. Il destino dell’Italia si arrotola nei sentimenti del ct, che si addolcisce, prende posizione nel ruolo, ci sguazza sentendosi a suo agio. È come un uomo che pian piano si sta innamorando della sua amante, con la quale non sa ancora se cominciare una vera storia d’amore o se accontentarsi della passione, pur bella, intensa, ma con un termine obbligato e pure nel breve. L’Italia piace, è riconoscibile la mano di questo ct, che alza la testa pure nelle sconfitte contro le big, che intona sempre il suo inno al lavoro, che quasi arrossisce davanti ai complimenti e le gratificazioni e che pensa al risultato come ultima componente di un percorso, non il mezzo per giudicare un professionista. Pian piano l’Italia si sta destando, grazie anche alla ferocia del suo condottiero, che va avanti cercando di creare un gruppo e non un insieme di solisti, magari pure disinteressati. La sua Nazionale non ha talento, ma ha un’anima. E guai a toccare il giocattolo, il ct si innervosisce. «Spero di vedere con la Romania la continuazione di ciò che abbiamo fatto in Belgio», rilancia. Come a dire: solo voi pensate che l’Italia abbia giocato male a Bruxelles.
DIVERSITÀ È un’Italia diversa da un anno a questa parte, l’ultima del 2014 si è esibita a Genova, si affrontava l’Albania, tutto era ancora in piena fase di sperimentazione; oggi si chiude il 2015 contro la Romania qui a Bologna. Era diverso soprattutto Conte che, in quella sera di Marassi aveva sbottato contro colleghi allenatori, Figc, facendo capire che in Nazionale non si poteva lavorare, pronunciando quel famoso «mi giro e sono solo». Pensando un po’: ma chi me l’ha fatto fare. Oggi? Sorride, è felice, ma il futuro prova a nasconderlo ancora. «Se tornassi indietro rifarei questa scelta», ammette. Questo non vuol dire che resterà azzurro. Però il compito comincia a piacergli. «Oggi sono entrato a pieno nel nuovo lavoro, non ero abituato. Mi è servito tempo per studiare le dinamiche, dove e come intervenire. Ho capito pure certe situazioni politiche, sulle quali non sono mai stato un’eccellenza. Ho deciso di concentrarmi solo sul lavoro: testa bassa e pedalare. Qui in azzurro ho imparato ad apprezzare calciatori che nemmeno conoscevo. Posso dire di essere soddisfatto della scelta che ho fatto. Sì, la rifarei. Se ho deciso di restare? Io ho un contratto che scade a luglio. Il tempo è galantuomo, e mi aiuterà a scegliere. Gli attestati di stima sono importanti ma alla fine conterà il risultato. Ho ben presente cosa è successo a Prandelli, che firmò il rinnovo e poi dopo due mesi è stato costretto a dare le dimissioni. Siamo figli del risultato, non del lavoro, che qui non viene mai valutato. Essere gratificati è comunque una buona base per il futuro. La Nazionale la sento mia, dà emozioni agli italiani. Raggiungere la semifinale aiuterebbe il mio lavoro, la finale ancora di più. Mi dispiace soltanto che adesso la squadra vada in letargo invernale».
IL DOLORE E il futuro, un altro, parallelo, che riguarda tutti noi, spaventa. La Francia ferita dal terrorismo aspetta l’Europeo. Ma tutti sono feriti, non solo i francesi. «Siamo rimasti allibiti per ciò che è accaduto. Sono atti di terrorismo che ci hanno fatto riflettere e hanno generato paura, ma sono anche convinto che bisogna combattere, andando avanti senza farci intimidire da niente e da nessuno. Non bisogna darla vinta. La soglia di attenzione deve restare alta e il tempo non deve aiutarci a dimenticare nulla. Attenzione alta, sempre. Non facciamo che i nostri sentimenti vengano ammorbiditi dal passare dei giorni. La paura non deve avere il sopravvento su nessuno».