(F. Pierantozzi) È stato l’attacco che tutti temevano. L’attacco perfetto al cuore della città: coordinato, simultaneo, opera di un commando di kamikaze addestrati per fare il massimo numero di vittime, seminare il terrore. Ieri è toccato al procuratore di Parigi François Molins, l’uomo di tutte le crisi, l’uomo di Charlie e dell’Hypercacher, tornare in diretta tv per raccontare ai francesi la notte di Parigi. Un assalto durato 33 minuti, condotto da sette terroristi, che ha provocato 129 morti, 352 feriti, di cui 99 fino a ieri sera in stato «di urgenza assoluta». Tutto comincia alle 21 e 20 di venerdì sera. Allo Stade de France è in corso l’amichevole Francia-Germania. Lo stadio è pieno: 80 mila spettatori sugli spalti, in tribuna d’onore c’è François Hollande. Anche i telecronisti sentono il rumore di un’esplosione. Avviene sulla rue Jean Rimet, all’altezza della porta B. Vengono ritrovati due corpi: uno è quello della prima vittima dell’attacco a Parigi che è appena cominciato, l’altro è di un kamikaze. Il suo gilet è imbottito di perossido di idrogeno e chiodi, un esplosivo micidiale per «fare male, provocare il maggior numero possibile di morti» dice Molins. Per fortuna in quel momento fuori dallo stadio c’è poca gente. Il venditore di bibite e panini si salva, è abbastanza lontano. Capisce quello che sta succedendo, ma in quel momento lo sa soltanto lui, e i primi agenti accorsi sul posto.
IL SECONDO ATTACCO Passano cinque minuti. Alle 21 e 25, qualche fermata di metropolitana più a sud, nel cuore di Parigi, scatta il secondo attacco. È il cuore del decimo arrondissement, quell’incrocio di strade proprio dietro il canal Saint Martin, sotto a Belleville e sopra alla place de la Republique. Di sera brulicano di gente, nei ristorantini, quasi tutti asiatici, o nei bar, affollati anche in terrazza. Comincia a fare freddo, ma ci sono le lampade che riscaldano, e poi fuori si può fumare. Fuori, infatti, ci stanno quasi sempre i più giovani. All’incrocio della rue Alibar e della rue Bichat arriva una macchina nera, una Seat modello Leon, dirà poi qualcuno. Ai tavoli del Carillon, un café carino, dove la mattina si fa colazione con i croissant e la sera si va per una birra, c’è chi non fa nemmeno in tempo ad alzare un braccio per proteggersi istintivamente il volto, alcuni si accasciano, la testa appoggiata sul tavolino rotondo, la mano ancora sul bicchiere. Dalla Seat sparano e sparano ancora, escono, si girano, puntano verso le vetrine del Petit Cambodge, un “buco” che è un’istituzione della cucina asiatica di Parigi. C’è sempre la fila fuori, lo sanno tutti che non accettano prenotazioni. Le raffiche falciano via i clienti, quelli in fila, le vetrine volano via. I terroristi ripartono, lasciano 15 morti, 10 feriti gravissimi, cento bossoli.
L’ESPLOSIONE Altri cinque minuti e alle 21 e 30 seconda esplosione allo stade de France, questa volta all’altezza della porta H. Muore solo il kamikaze, imbottito con lo stesso gilet del primo. Dentro, il match Francia-Germania continua. Due minuti dopo, alle 21h32 quelli con la Seat sono nella piccola rue de la Fontaine au Roi. Si fermano davanti alla Bonne bière. Forse la gente seduta ai tavoli non ha sentito i colpi sparati poco prima, proprio lì dietro, a due passi, forse si stanno chiedendo cos’erano quelle esplosioni: davanti alla Bonne bière muoiono in cinque, altri 5 sono in condizioni disperate.
LA STRAGE CONTINUA La missione non è finita. La Seat continua, svolta a sinistra, poi sempre dritta fino alla rue Charonne, all’incrocio con la rue Faidherbe. Ci mettono quattro minuti. Per essere sicuri di prenderli tutti, questo gruppone di ragazzi che beve e chiacchiera come al solito fuori della Belle Equipe, cominciano a sparare prima ancora di girare: mandano in frantumi la vetrina del ristorante sushi, poi i proiettili inondano il caffè, un’altra istituzione di quartiere, un appuntamento facile, scontato, su una piazzetta dove si può stare in tanti. Ne ammazzano 19, nove li lasciano in fin di vita. Sparano anche quando ripartono: gli ultimi due proiettili finiscono nella vetrina della pasticceria all’angolo. Quattro minuti dopo, alle 21 e 40, sul vicino boulevard Voltaire, quasi sulla piazza della Nation, un uomo si siede tranquillamente a un tavolino del Comptoir Voltaire. Sceglie un posto fuori. Aspetta che Catherine, la cameriera, venga a prendere l’ordinazione e si fa esplodere. Catherine è fortunata, sopravvive con diverse ferite all’addome.
L’INCUBO Ma non è finita, il peggio deve ancora arrivare, anzi, arriva nello stesso momento. Sempre alle 21 e 40, una Polo nera con targa belga si ferma davanti all’ingresso del Bataclan, più avanti sul boulevard Voltaire, quasi sulla piazza della Republique. È come se chiudessero il cerchio. Parigi già trema: si rincorrono le voci di esplosioni, di attentati, di morti. Ma all’ingresso del Bataclan nessuno riesce a impedire ai tre col kalashnikov di entrare. Prima ancora di mettere piede nella sala dove è in corso il concerto degli Eagles of Death Metal, evocano la Siria e l’Iraq. Da fuori si cominciano a sentire gli spari, si vede gente che scappa dalle uscite di soccorso che danno sul piccolo passage Amelot, il marciapiede si riempie di sangue. Dentro è solo l’inizio di un incubo che durerà tre ore. Ma tredici minuti dopo, mentre nel Bataclan si continua a morire e le teste di cuoio prendono posizione, alle 21 e 53, un terzo kamikaze si fa esplodere a una cinquantina di metri dallo Stade de France. Non riesce a uccidere nessun altro tranne sé stesso.
IL BLITZ A mezzanotte e venti i reparti speciali irrompono nel Bataclan, uccidono un primo terrorista, gli altri due azionano i loro giubbetti e saltano in aria. Dentro scopriranno una carneficina: 99 morti, decine di feriti in condizioni molto gravi. Non è ancora l’una.