(E. Sisti) E’ la Roma brutta e spaventata del secondo tempo che va a prendersi la partita. Mette in campo la sua confusa rabbia, in quel momento è una squadra quasi disperata, ma il cuore ancora batte, malgrado tutto, malgrado i tedeschi abbiano cambiato marcia. Le gambe vanno ancora e ogni tanto c’è persino qualche giallorosso che arriva primo sui palloni, lotta per la conquista di uno spazio. La Roma che si rilancia in Champions (ma è ancora tutto da decidere), tornando a vincere una partita dopo 413 giorni, è una ribollente accolita di creature in pantaloncini straziate dalla delusione di aver visto il loro 2-0 (meritato) trasformarsi in 2-2 (meritato) in soli sei minuti, i primi sei minuti della ripresa, come se al rientro in campo qualcuno avesse deciso di cambiare le regole del gioco o il gioco stesso. A quel punto, quando il pareggio l’avrebbe mandata a un passo dalla porta dell’inferno, la Roma non aveva più la forza mentale di far ragionare i propri piedi, poteva soltanto buttarsi a corpo morto nella metà campo degli altri, minata nei sentimenti, corrossa dalla rimonta subita, eppure non ancora abbattuta.
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Strappando i punti con i denti, gli stessi denti con i quali alla fine avrebbe sorriso, la Roma sale al secondo posto in classifica, vince 3-2, batte il Leverkusen ma soprattutto sconfigge la sua anima nera. Decide un rigore di Pjanic. In teoria tutto questo non sarebbe dovuto più succedere. Vedere la luce trasformarsi in buio, la forza cambiare in debolezza, l’entusiasmo sciogliersi nella paura, il talento collettivo sparire fra i limiti individuali. Dopo tante esperienze fatte, dopo tanti errori commessi, dopo tante delusioni, frutto di una condotta “ciclotimica”, non sarebbe dovuto mai più accadere, a questa Roma, di spezzarsi in due. E invece anche ieri, nella ripetitiva, sfiancante storia ambientale di un club condannato a fermarsi sempre un metro prima delle vere soddisfazioni, i giocatori si sono esaltati per un tempo e nel secondo, convinti di aver fatto l’impresa, sono tornati in campo con le gambe molli e le idee appannate, appagati forse o forse storditi. È bastato un cambio, Bellarabi per Kiessling, è bastato che Schmidt, persona colta e intelligente, capisse di non potersi più affidare al 4-4-2 iniziale (nel quale la testa di Kiessling avrebbe dovuto cercare le imbucate di Chicharito), per provocare l’ennesimo attacco di panico collettivo.
La Roma era stata eccezionale nello sfruttare due contropiedi misteriosamente offerti dal Leverkusen in apertura di match. Un grande Dzeko prima forniva l’assist a Salah (2’) e poi sfruttava quello di Nainggolan (29’), riapparendo nel tabellino dei marcatori dopo 605 minuti. Il Leverkusen, cresciuto alla cultura dell’attacco a tutti i costi, stava servendo alla Roma il futuro su un piatto d’argento. Imbragati da un modulo poco praticato, i tedeschi rischiavano di capitolare altre due volte e soltanto la frenetica natura di Salah ha impedito che ciò avvenisse. Poi il disastro del rientro in campo. Due amnesie e arrivano le reti di Mehmedi (1’) e di Chicharito (6’), due cazzotti in bocca, la possibile fine del sogno e la sensazione che il Leverkusen avrebbe potuto segnare ancora. Ma per una volta non era destino. Non era la sera per piangere.