(G. Giubilo) Un quarto di secolo è passato dal giorno dell’addio a Viola, il più grande presidente nella storia della Roma. Era venuto nella Capitale da bambino e un cuginetto gli aveva trasmesso l’amore per i colori giallorossi, fino a portarlo a Testaccio. E così Adino Viola, Dino per il resto del mondo, aveva intrapreso un cammino che lo avrebbe accompagnato per tutta l’esistenza. Questa non vuole essere una celebrazione, non vuole essere un Albo d’oro, che da solo occuperebbe un’intera pagina di giornale, tanti sono stati i trionfi raccolti ancor prima di rivestire la massima carica del club. Preferisco rievocare ricordi legati a una personale amicizia sviluppatasi e cresciuta nel corso degli anni.
Ero spesso nella sua bella casa dei Parioli, illuminata dal sorriso e dallo sguardo intenso della più elegante e intelligente First Lady che la storia del calcio capitolino avesse mai conosciuto e che avrebbe ricoperto anche una breve parentesi alla presidenza dopo la scomparsa del marito. Va sfatata anche una delle tante leggende metropolitane, così care alla nostra amata città. Di Viola si parlava come di un mercante di armi, in realtà la sua industria produceva strumenti di precisione che servivano anche, e soprattutto, a migliorare dispositivi chirurgici e altre apparecchiature scientifiche, oltre che a migliorare la precisione dei fucili. Una lunga scalata, senza progetti ambiziosi, ma ispirata a un solido legame con la società, fino ai vertici.
Aveva svolto anche le funzioni di vicepresidente accanto ad Anzalone, quando fu incaricato di gestire un episodio tragico come la morte di Taccola. Ma il momento della svolta si verifica a metà maggio del 1979, quando Dino prelevò il pacchetto di maggioranza della società. Immediato, scattò il contatto con Nils Liedholm, che era andato a guidare il Milan, ma che si sentiva legato a filo doppio a questa città. Quasi inevitabile che i due vecchi amici trovassero subito l’accordo per un clamoroso ritorno, quello che avrebbe fatto tornare lo scudetto sulle maglie della Roma quarantuno anni dopo il titolo «di guerra», come amavano chiamarlo le grandi potenze del nostro calcio, per una volta messe ai margini.
A livello personale conservo ancora, sulla mia libreria, un ricordo prezioso, la Coppa Italia del 1980, quella in piccolo formato destinata ai giocatori, al tecnico e al presidente e Dino Viola me la volle regalare, una delle tante testimonianze di sincera amicizia. Non possiamo dimenticare, in questo excursus, anche i momenti difficili, dalla Coppa dei Campioni perduta ai rigori, agli sciacalli che montarono il caso Vautrot, alle battaglie contro lo strapotere delle squadre del Nord che amareggiò Viola, soprattutto per la marcia indietro di Ferlaino che doveva affiancarlo nella campagna. Meglio rievocare i momenti più significativi, anche perché legati spesso a episodi divertenti.
Ero insieme con il presidente all’Hotel Gallia di Milano quando, a pochi minuti dalla chiusura del mercato, arrivò la telefonata di Liedholm. «Presidente, ho l’occasione di prendere Turone per una cifra irrisoria». E, all’obiezione di Viola sul fatto di avere già in squadra Santarini, la replica del tecnico non si fece attendere: «Poco male, giocheremo a zona». Quel campionato fu chiuso al settimo posto, ma costituì la rampa di lancio verso gli anni più gloriosi, lo scudetto scippato a Torino proprio con il gol di Turone, le sarcastiche polemiche con Boniperti, centimetri più, centimetri meno, ma la vendetta non avrebbe tardato molto a materializzarsi.
Fondamentale il parere di Liedholm per distogliere Viola dal suo chiodo fisso, che era Zico: spendendo un terzo, il tecnico convinse Viola a prendere Paulo Roberto Falcao dall’Internacional di Porto Alegre. E sappiamo tutti che cosa abbia rappresentato il fuoriclasse brasiliano negli anni d’oro della Roma, anche perché il ritrovato prestigio contribuì a portare nella Capitale giocatori preziosi come Benetti e Toninho Cerezo, da mettere affianco a quel ragazzino che Viola aveva prelevato con felice intuito dal Parma, Carletto Ancellotti. Tra i rimpianti, il sogno a lungo inseguito e mai realizzato di poter regalare alla Roma uno stadio di proprietà. Ancora una volta, la politica e la burocrazia mandarono a vuoto il progetto, evidentemente la storia è destinata a ripetersi, anche se è sperabile che la proprietà americana abbia maggior successo.
Una piccola rivincita per le tante prepotenze che la Juve gli aveva inflitto, aver portato a Roma Zibì Boniek, che era finito a Torino per esigenze politiche e commerciali, ma non aveva mai nascosto la sua ambizione di poter giocare con la maglia amaranto e oro. Peccato che gli ultimi anni di presidenza avessero colpito Dino Viola con episodi poco simpatici. Addirittura pazzesco che si potesse contestare un presidente che aveva portato il club ai massimi livelli. Ma purtroppo il tifo era vittima di un profondo degrado, dettato da interessi inconfessabili. Gli stessi finti supporters che adesso stanno creando tanti problemi, anziché impegnarsi al massimo per offrire alla squadra un appoggio del quale avrebbe tanta necessità.