(G. Mura) Nel ‘91, dopo un intervento al cuore, era diventato testimonial di una campagna antifumo. Recitava: «Nella mia vita ho avuto solo due vizi. Uno, il calcio, mi ha dato tutto. L’altro, il fumo, stava per togliermelo». E invece il fumo sa aspettare, anche un quarto di secolo, e cambiare il fronte d’attacco: se ti sei difeso col cuore, colpirà ai polmoni. Così giovedì se n’è andato, «serenamente» dice il comunicato della famiglia, Johan Cruijff, uno dei più grandi campioni espressi dal calcio europeo. Il Pelé bianco, lo definì Gianni Brera, che non aveva entusiasmi facili. L’idolo della mia giovinezza, ha detto Platini. Il profeta del gol, per Sandro Ciotti, che gli dedicò un film incentrato sul “14”. Un numero atipico, scelto da Cruijff quando ancora le maglie andavano dall’1 all’11 e lui era un 9.
Un centravanti di movimento, e che movimento, si direbbe oggi. Oppure un trequartista. In realtà, il mito di Cruijff si basa su considerazioni che sembrano terra terra: era molto veloce di gamba e di pensiero, sapeva fare di tutto, calciare bene con i due piedi, ripiegare in difesa, lanciare i compagni. Anche nei colpi di testa era bravo, e aveva una grande visione di gioco. Tra la fine dei Sessanta e quella dei Settanta, con l’Ajax di Michels e con la Nazionale olandese, era stato il miglior interprete di quel che fu chiamato “calcio totale” proprio per l’intercambiabilità dei ruoli. Che arriva alla perfezione in Cruijff, ma è di bella resa anche nei terzini Krol e Suurbier, in Haan, Neeskens, Keizer. Il portiere-libero, col numero 8 sulla schiena, nacque allora: lo sgraziato Jongbloed.
Nacque, tra le perplessità del calcio italiano fondato sul rigoroso rispetto dei ruoli, Arancia meccanica, con riferimento alla maglia arancione e a un film di grande successo. Non era meccanica fredda, come quella delle squadre dell’Urss e della Germania Est. Era una meccanica allegra, trascinante come una tammurriata, che s’innestava sugli slogan sessantottini: l’immaginazione al potere. Il mondo fu costretto a prendere atto che l’Olanda non era solo Van Gogh e mulini a vento, tulipani e canne, ma anche calcio. Due volte finalista ai mondiali (nel ‘78 senza Cruijff), due volte contro il Paese organizzatore certo non sfavorito dagli arbitri, più scandalosamente in Argentina che in Germania, quell’Olanda non vinse molto ma fece molto pensare: addirittura mogli e fidanzate nel sacro eremo del ritiro, pensa un po’. Cruijff, capelli sempre lunghi, sembrava un figlio dei fiori capitato lì per caso. Invece, appena si cominciava a giocare, era capitano e allenatore in campo, anche troppo. Alcuni compagni, Keizer e Van Hanegem, proprio non lo sopportavano, oppure lo sopportavano solo perché li faceva vincere. Cruijff, per chi non l’abbia visto, era un incrocio tra Nureyev e Beep Beep, l’eleganza del gesto e l’alta velocità. Amava dribblare, anche di tacco, in tunnel, in aggiramento. Ma molti l’hanno visto. Credo sia stato il primo, vero campione straniero a non soffrire oscuramenti (quando non esisteva la tv) o intermittenze (Pelé, Di Stefano, la grande Ungheria).
Nell’esibizione della grande orchestra biancorossa, arancione o blaugrana era come se un riflettore fosse puntato sempre su di lui: come garante del bel calcio totale e come, all’occorrenza, solista sommo e mago dell’imprevisto. Del resto, già quando aveva cinque anni chi passava per Tuinbouwstraat, nel quartiere di Betondorp, alla periferia di Amsterdam, spesso si fermava a guardare i numeri di Johan col fratello Hendrik detto Heini, maggiore di due anni. Il padre, Manus, aveva un negozietto di frutta e verdura. Morì che Johan aveva 12 anni e all‘Ajax era già considerato una stellina. Anche per questo, venduto il negozio, il club offrì un lavoro a sua madre: donna delle pulizie allo stadio, lavaggio maglie incluso, e barista nei giorni delle partite. Esordio in prima squadra a 16 anni, in Nazionale a 19, Johan era veloce anche lì, e non soffrì per essere stato scartato alla visita di leva (piedi piatti). Nel ‘67, alle nozze di Keizer, conobbe Danny e la sposò l’anno seguente. Lui appena maggiorenne. Lei figlia di Cor Coster, diventato miliardario con il commercio di diamanti, che da qui in poi sarà il manager di Cruijff, portandolo a fine carriera negli Usa (Aztecs, Diplomats), poi in Spagna (Levante) e infine Olanda (Ajax e Feyenoord).
Cruijff ha un’altra caratteristica: è il campione che ha avuto maggiori successi da allenatore. Con lui il Barça vince la Liga per quattro stagioni di fila e arriva alla sua prima Coppa dei Campioni, battendo la Samp a Wembley. Tra i moltissimi pregi Johan non aveva quello dell’umiltà e con le sue malaccorte dichiarazioni di sicurezza, quasi di arroganza, subì una dura lezione dal Milan di Capello ad Atene: 0-4 in un’altra finale di Champions. Legato alla Spagna, in particolare alla Catalogna, chiamò il figlio Jordi, giocò nella Nazionale catalana e la allenò dal 2009 al 2013. È da considerare l’iniziatore e il propiziatore del ciclo-Barça, la cui struttura tecnica è basata su una richiesta del Cruijff allenatore: tutto il vivaio, a partire dai ragazzini più piccoli, deve giocare come la prima squadra. Al di là degli acquisti milionari, questo è accaduto. «Il calcio è un gioco semplice, ma giocare in modo semplice è molto difficile», diceva. «Giocando, i ragazzini si devono divertire». «Il calcio consiste fondamentalmente in due cose. La prima: quando hai la palla, devi essere capace di passarla bene. La seconda: quando te la passano, devi saperla controllare. Se non la puoi controllare, tantomeno la puoi passare». «La creatività non fa a pugni con la disciplina». «La qualità senza risultati è inutile, i risultati senza qualità sono noiosi». Questa potrebbe anche essere, ma non è, di Valdano. Che da giovane ebbe una discussione con Cruijff. «Era nervoso, continuava a discutere con l’arbitro tenendo lui il pallone in mano. Gli ho detto: se ci dai il pallone, proviamo anche noi a fare qualcosa. E lui: tu come ti chiami? Jorge Valdano, ho detto. E quanti anni hai? Ventuno. E lui: alla tua età, a Johan Cruijff si dà del lei». Ad altre età, se ne può fare a meno: ti sia lieve la terra, Johan Cruijff.