(E. Sisti/M. Pinci) Spalletti possiede la Roma. Gli altri elementi della società si allineano umilmente sullo sfondo. Accettano, avallano, esaltano ogni decisione o affermazione del tecnico. Deciso come mai, il “cattivo tenente” ha obiettivi precisi. Non li ha mai nascosti. Alcuni li ha già raggiunti. Ma non si fermerà. Almeno finché qualcuno non sarà costretto a spiegargli che certe pretese potrebbero non rientrare nelle possibilità dell’azienda (una squadra più spallettiana per il 2017?). I giocatori attuali hanno subito una metamorfosi. Grazie a El Shaarawy e Perotti si sentono motivati, ringiovaniti, sognano un futuro. Sono usciti dalla Champions ma ormai hanno metabolizzato l’idea di “prestazione” e ciò li fa sentire una squadra solida e vera. La nuova consapevolezza di sé fa percepire come vitale e nutriente ogni indottrinamento. È possibile che nell’aggiornata distribuzione dei poteri (il capo sono io) essi considerino stimolante persino la pesante accusa ricevuta nel dopopartita di Madrid. La spiegazione è semplice: il rapporto instaurato dal tecnico con l’ambiente giallorosso ha qualcosa di medianico, non è un semplice allenatore italiano, non svolge i compiti del tradizionale manager all’inglese. Di più.
Nei suoi 55 giorni di navigazione a Trigoria Spalletti ha solcato i mari senza mai voltarsi indietro. Ha demolito certezze apparse a lungo inattaccabili. E’ in pura destrutturazione. Non c’è più il Gervinho di turno cui darla vinta, né in squadra né dietro le scrivanie. L’ultimo alibi lo ha smontato vedendo qualcuno dei suoi (non Manolas) ridacchiare dopo il Bernabeu: «Guai a chi fa complimenti, abbiamo perso 2-0, zitti e a casa». S’è intestardito nel voler proiettare il club in una nuova dimensione. Lui lo chiama “stile Roma”, in realtà è una rivoluzione che ha stravolto le abitudini giallorosse. Allenamenti a intensità più alta (lo staff sposta i “conetti” correndo, per non dare l’impressione di abbassare i ritmi), chi non ce la fa viene sbattuto in palestra e la domenica in panchina. Cellulari vietati ai calciatori negli spazi d’insieme, spogliatoio, palestra o mensa. La riunione tecnica non somiglia più a un talk show in cui ognuno dice la sua. E’ un monologo dello staff. La truppa ascolta. E guai a chi sbadiglia mentre si preparano al video le situazioni di gioco. Il lungo addio a immarcescibili privilegi è in corso, non esiste più il “consiglio dei saggi”. Una volta si chiudeva un occhio davanti a un ritardo o a una sbuffata. Oggi, che il campionato è più vivo che mai, nessuno può trasgredire: «Se non fai quello che dice può essere un po’ pericoloso», ammette Pjanic pensando a Spall Metal Jacket.
Anche in campo sono tutti uguali. Si gioca meglio senza Dzeko? Allora Dzeko va in panchina (e lui sta già cercando un altro club). Ma la rivoluzione più grande è la “normalizzazione” di Totti. Quando è stato bene o quasi bene il capitano è sempre partito titolare, anche suo malgrado, anche giocando (più volte nel campionato scorso) febbricitante. Con Spalletti no: Totti gioca se serve e se non serve può anche passare settimane in panchina a fare i “visucci”, perché «io non alleno un singolo, alleno una squadra». Un assist non del tutto involontario a Pallotta, che martedì ha disertato il pranzo ufficiale col presidente del Madrid Florentino Perez. L’intenzione della società (e di Spalletti?) è convincere Totti a diventare dirigente fin dall’estate chiudendo la carriera da atleta con uno scricchiolio sinistro che fa venire il mal di cuore ai tifosi, così, senza clamori. Nel colloquio lampo di una settimana fa, mentre il capitano ribadiva il desiderio di continuare a giocare, il presidente ha insistito: «Sei sicuro? Pensaci…». Con il contratto da calciatore in scadenza, anche non decidere suonerebbe come una decisione. E forse Totti l’ha capito.