(A. Carotenuto) Al tavolo di Jorge Valdano il Real Madrid sembra «un quadrato che vuole diventare un cerchio». Non un’utopia: un pasticcio. I sette gol al Celta sono cerotti su un allenatore saltato, un altro che traghetta e basta, la stella Ronaldo che si irrita coi compagni, i fischi, i 12 punti di distacco dal Barcellona. Qui il campione del mondo argentino ha giocato, allenato e fatto il dirigente, fino a rompere con Mourinho. Ha attraversato il calcio da sovversivo, da uomo sensibile ai sogni. Oggi è un apprezzato scrittore. Sorseggia un cortado in una caffetteria a tre minuti dal Bernabéu, dove domani aspettano la Roma, lungo un viale pieno di banche, concessionarie d’auto e platani spogli. Il lusso e le foglie morte. Questo Real. «È un tempo di disperazione per doversi confrontare col più forte Barcellona di sempre. La società tecnologica ci ha tolto la calma e ha imposto la fretta. L’impazienza sta provocando cambi continui, i cambi non aiutano i progetti».
Il madridismo come reagisce?
«Nel modo in cui dice l’inno del Real: quando perdi, dai la mano. Ci sono valori che definiscono un club. Non darsi per vinti, far prevalere il gruppo, associare trionfo e spettacolo. Questo è il madridismo, con l’onestà e l’autorità morale dei suoi idoli. Bernabéu morì povero. Aveva una strategia e una visione, quando costruì lo stadio e allargò la platea dei tifosi ingaggiando un ungherese, un francese e un argentino: Di Stéfano fu un Bernabéu vestito da calciatore. Nel vuoto di soluzioni d’oggi, rimane l’orgoglio di chi non si rassegna alla mediocrità».
Zidane come se la cava? Lei lo definì un elefante col cervello da ballerina.
«Era un falso lento, aveva un fisico grosso, ma l’arte redime. Si muoveva leggero, era bellissimo da vedere. Non ha commesso errori finora e contro le mie previsioni è pure un buon comunicatore. Ha un problema di cui non è responsabile: una rosa fatta di calciatori più alla Zidane che alla Raúl, senza equilibrio. Per trovarne, Benítez – uno che ama il controllo – giocava contro la natura della squadra. Zidane, più tollerante verso il talento, compromette la tattica con un eccesso di libertà. Ma lui è l’ex giocatore affascinante e la gente sogna sempre che il passato si ripeta. Il calcio si alimenta di illusioni».
Anche Totti è un’illusione? I suoi 4 minuti hanno acceso Roma.
«È impossibile discutere un mito. Nella storia della Roma lui viene al primo posto. Ma la formazione si fa con i migliori della settimana, non della storia. Totti ha 40 anni. Deve accettarlo. Se noi calciatori avessimo immaginato quanto è duro l’addio, avremmo fatto i pittori o gli scultori, per non smettere mai. I calciatori sono gli ultimi a cogliere il momento giusto per lasciare. Dovrebbero aiutare Totti le persone a lui vicine. Altrimenti continuerà a vedere l’allenatore come un nemico. Il guaio è che oggi un allenatore deve gestire dei magnati. Questo sono i giocatori. Hanno un’altra squadra intorno: l’agente, l’avvocato, la comunicazione, il marketing. Gente con poco senso critico. Ma i cattivi consiglieri allontanano dalla realtà. Vivono per dar ragione al loro mezzo di vita».
Lei come smise?
«Sono stato fortunato. Non ho dovuto lasciare il calcio. Il calcio lasciò me. Presi l’epatite e quando guarii, ero già un ex».
Cos’era il calcio per lei, da bambino?
«Per me e per la mia generazione il calcio senza parola era incompleto. Vivevo in un piccolo borgo. La fascinazione veniva dagli articoli della rivista El Gráfico e dalle partite alla radio. La prima in tv l’ho vista a 15 anni. Mondiali ‘70. Giocava il Brasile. Fu la conferma dell’universo meraviglioso cresciuto nelle mie fantasie. Ma avevo idealizzato un mondo con una squadra che era un’eccezione, non una regola. Oggi in me sopravvive lo stupore per la diversità. Il calcio è un mondo di esagerazione come tutti i territori emozionali. Rappresenta la miseria e la grandezza. Quando incontra la grandezza, lo riconosco».
E quando invece incontra la miseria?
«Il tesoro di questo gioco è l’innocenza del tifoso. Se il tifoso si sente tradito, la perde. Lo scandalo della Fifa ha diffuso la sensazione che la corruzione contamini tutto: pensi che un contratto televisivo sia l’arbitro della prossima partita. Ma così il calcio diventa solo un oggetto di consumo in più. Era il simbolo dell’identità dei territori, mentre oggi non riflette luoghi, ma lo spirito del nostro tempo. Riflette la globalizzazione e la concentrazione della ricchezza: i grandi sempre più grandi, i piccoli sempre più piccoli. Real e Barça aumentano il fatturato del 15% ogni anno, gli altri lottano per sopravvivere. Eppure un club con 11 stranieri e un presidente russo trova la sua legittimazione in uno scudo su una maglia. Questo è il miracolo della rappresentatività. Tre anni fa, in un momento critico dell’economia spagnola, con una percentuale storica di disoccupati, una processione di tifosi andava allo stadio a dare il benvenuto a Bale, l’uomo dei 100 milioni. Un terzo di loro non aveva lavoro, ma a nessuno disturbava quella spesa. Ora dobbiamo solo decidere se qualificare la storia come spaventosa o meravigliosa».
A proposito di etica. Nel suo ultimo libro lei torna sulla mano de dios di Maradona e si dichiara complice. Perché?
«Perché esultai, con lo stesso entusiasmo. È facile spiegarlo a un italiano. L’immigrazione ha portato in Argentina spagnoli e italiani. Dal punto di vista morale, nel nostro carattere vi siete affermati voi. Amiamo la picardia.
L’astuzia dà più prestigio dell’onestà. Il gol con la mano si festeggiò più di quello successivo, tre minuti dopo, il più bello della storia. Non avrò mai la prova, ma se Maradona avesse ammesso di averla presa con la mano, l’Argentina sarebbe un Paese migliore. La sua forza mitologica aveva capacità di contagio. Prima della partita con gli inglesi dissi: domani è il giorno ideale per gli imbecilli che vorranno confondere il calcio con la politica. Quando Diego segnò con la mano, corsi ad abbracciarlo. L’imbecille ero io. Ogni settimana arriva qui qualcuno dall’Argentina a girare un documentario sul trentennale di quel Mundial. Un amico mi ha portato il giornale con quella dichiarazione in una cornice. Ce l’ho in ufficio. Però è nascosto».
Cosa manca a Messi per essere un leader in Argentina?
«Gli manca un’Inghilterra, un’umiliazione come quella che visse il Paese all’epoca, così che lui possa arrivare su un cavallo bianco a vendicare l’affronto. Maradona è stato un genio, apparso in un momento speciale per riscattare un popolo, anzi due, per farsi bandiera anche di Napoli nella ribellione del sud umiliato contro il nord dominante. Un profeta, non solo un calciatore, superiore su un terreno sociale, vorrei dire religioso. Ma in campo i geni sono due, Messi è seduto alla stessa mensa. Non ha bisogno di un prato né di compagni. Solo di un pallone. È come se facesse per tutto l’anno quel che Diego fece per un mese in Messico. Tanto che quando segna un solo gol, ci pare poco».
Quanto gli assomiglia Dybala?
«Può diventare un grandissimo. Amo la sua semplicità. Un talento che non ha bisogno di orpelli è un progetto di crac, sebbene non delle dimensioni di Maradona o Messi.
È un Tévez con meno furia e più finezza. Sa guardare nello stesso istante vicino e lontano. Se nei due metri quadri in cui si trova lo marcano in tre, cambia il gioco a 40 di distanza. Ci vuole personalità per segnare al Bayern nei minuti più complicati della stagione. Dybala è un invito al calcio.
Se gioca lui, guardo la Juve. Se lui non gioca, ci sono più probabilità ch’io faccia altro».
Le pare cambiato il calcio italiano?
«Fiorentina e Napoli sembrano spagnole. È una rivoluzione formativa, al posto dell’ossessione per la tattica e per la preparazione fisica. Bisognerebbe creare una scuola con l’ossessione per il gioco, dove ci sia spazio per la tecnica e la fantasia. Ma in Italia tutte le rivoluzioni nascono dopo un risultato. Si prova a replicare il gioco di chi ha vinto i Mondiali. C’è un altro fattore: il risultato economico. I club hanno tifosi e clienti. Solo con i tifosi non si va avanti. Se vuoi attrarre i nuovi mercati forti – Usa e Cina – devi saperli affascinare. O con gli eroi: Messi e Ronaldo; oppure col bel gioco: Pep Guardiola. Due anni fa il Bayern ci diede una lezione. Aveva vinto sei titoli ma cambiò allenatore. Mise sotto contratto un’idea. Se sei un tifoso cinese e la domenica hai davanti a te quattro televisori, in cui giocano lo United, la Juve, il Real, il Bayern: cosa scegli? Se cerchi le emozioni, guardi gli ultimi 5 minuti di una partita bloccata. Se cerchi l’allegria, guardi chi ti fa felice col pallone. Ed è là che va a finire il denaro. Il denaro non è stupido».
Com’è stato il percorso dal pallone alla scrittura? Qual è la sua educazione?
«Un’educazione disordinata. Senza maestri. Una lettura tirava l’altra. Quando a 19 anni arrivai all’Alavés, nel mio hotel a Vitoria viveva un uomo argentino molto colto. Mi dava consigli. Io non ricordo il suo nome, lui non sa di avermi messo in cammino. Ho perso mio padre a 4 anni, in casa non c’era un solo libro. Per tutta l’infanzia ho letto fumetti. Eravamo una famiglia della classe media, senza particolari preoccupazioni per le piccole spese. L’editorial Salvat lanciò una collana di titoli, comprai “Il ritratto di Dorian Gray” e mi convertii. Quando incontro vecchi compagni, tutti mi ricordano con un libro in mano. Era strano che un calciatore leggesse. Gli intellettuali disprezzavano il calcio. Borges non ha fatto altro che smarcarsi dal pallone. La famiglia di Roberto Santoro, uno scrittore assassinato dalla dittatura, mi regalò “Literatura della pelota”, un libro che mostra come nel calcio ci siano poesia, tango, narrativa. Cominciai a leggere “Triunfo”, la rivista di Montalbán, scoprendo che il pallone è metafora e rappresentazione del potere. Giocare iniziò a essere diverso. Da quel momento non fu più un’espressione animalesca: vai in campo e diverti il pubblico. Cominciai a sentirmi rappresentante di qualcosa di più profondo, di politico».
Le piace essere considerato un filosofo del calcio?
«È come per il tika taca: un termine nato per disprezzare i passaggi e poi diventato indicatore di eccellenza. Hanno cercato di insultarmi chiamandomi poeta, intellettuale, cattedratico, filosofo. La gente ha finito per credere che io lo sia. Del resto ognuno di noi porta la sua etichetta. Io volevo solo allargare il paesaggio».
Non le viene più nostalgia della panchina?
«Mi sono allontanato dalla professione. Oggi per far bene l’allenatore devi essere ossessionato dal calcio. Io quell’ossessione non ce l’ho più. Lo amo, e non solo il gioco: amo il fenomeno sociale, culturale. Ma sono un disperso dal calcio. Mi piace troppo leggere, andare al cinema, stare con gli amici. Il calcio invece ti prende la vita. È bello che esista gente disposta a dargliela. Non io. Non più».