(S. Carina) Per un attimo ha temuto di pareggiare una gara che avrebbe dovuto stravincere già nel primo tempo. Il volto di Spalletti al gol di Parolo, sembrava la copia dell’urlo di Munk. Dopo qualche secondo, che gli è servito per metabolizzare il colpo, si è girato verso la panchina con gli occhi fuori dalle orbite. Gli era già accaduto nel primo tempo un paio di volte, quando se l’era presa soprattutto con Nainggolan, reo di non aver servito prima El Shaarawy e poi Pjanic, oramai a tu per tu con Marchetti. Ci hanno pensato Florenzi e Perotti a regalargli la serenità costruita in questi tre mesi «non uscendo mai da Trigoria, nemmeno fossi stato nel carcere dell’Asinara». Quando si presenta davanti alle telecamere (e poi nella sala stampa dell’Olimpico), Lucio è il ritratto della felicità. Non infierisce sull’avversario («Penso che più di così non potevamo fare, perché quando giochi contro una squadra allenata da Pioli c’è il momento in cui devi essere bravo a soffrire»), elogia i suoi («hanno interpretato la gara come avevo chiesto») e ha anche una parola di conforto per Totti, dopo che alla vigilia qualche considerazione nei confronti del capitano era sembrata fuori luogo: «Sono il primo ad essere dispiaciuto per non averlo fatto giocare».
IL CAPOSTAZIONE – Il ko inatteso del Napoli ad Udine, riapre la corsa al secondo posto. Quando gli viene posta la domanda, il tecnico – quasi fosse un attore di teatro – si prende una pausa. Buca lo schermo con un sorriso che poi fa scomparire, facendosi immediatamente serio: «Dobbiamo essere pronti a montare sopra tutto ciò che passa e se passa il secondo posto bisogna giocarsela. Il Napoli è la squadra che ha prodotto il miglior calcio, anche superiore alla Juventus, la più organizzata di tutte. Devi vincere con loro e riguadagnare un punto, bisogna essere impeccabili in tutte le partite e se passa questo secondo posto bisogna farsi trovare pronti. Fa parte del nostro lavoro, della nostra ricerca. La Roma deve giocarsela sempre per queste posizioni, deve farsi la mentalità per giocare queste partite». Si percepisce come sia completamente a suo agio. Gli suggeriscono come stia effettuando «una dittatura illuminata» e lui sorride compiaciuto. Concede il bis quando gli chiedono se sia più una Roma o uno Spalletti da scudetto: «Se mi volete dare una mano, non mi fate queste domande…», ridacchia contento. Non soddisfatto, si definisce «molto fortunato». In realtà è anche bravo e ne è consapevole.
LA TATTICA – Anche ieri, nel 4-1 finale, c’è molto di suo. Tutta la settimana è stata vissuta cercando di capire come avrebbe fatto giocare la squadra: 4-2-3-1, modulo a rombo, 4-3-3, con Dzeko, senza Dzeko. Alla fine Lucio ha sorpreso tutti, Pioli compreso, schierando un inedito 4-2-4 (con Nainggolan in posizione avanzata) con il quale è andato sempre alla ricerca dell’uno contro uno contro la difesa laziale. Merito anche del sacrificio degli attaccanti, al quale regala un plauso speciale: «A gennaio mi si chiedeva di trattenere Gervinho che era il più forte. Ma è sempre la squadra che determina, mai un giocatore. E Perotti ed El Shaarawy lo dimostrano. Quando Stephan sarà più cattivo diventerà un campione». Se Garcia aveva messo la chiesa al centro del villaggio, «io ho messo la palla a metà campo e ho detto chi la prende gestisce il gioco e fa meno fatica». Lucio dixit.