Ieri sulla Tiburtina, appesa allo spartitraffico, c’era la foto d’un ragazzo morto in incidente stradale ornata da un mazzo di fiori e da una maglietta di Francesco Totti. Altari così, un po’ laici un po’ sacrileghi e anche decisamente sacri, a Roma non sono infrequenti.
Il rapporto del campione e della città è ormai evoluto a una spiritualità strana e commovente per cui, sempre ieri, a una delle radio in cui si dibatte tutto il giorno di romanismo, si è sentito dire che «non si può fare questo a ’sto ragazzo, ve lo dico da laziale». Lo scandalo è tale da assumere imprevedibili aspetti bipartisan, e il dispiacere che gonfia l’orgoglio è sconfinato oltre i territori puramente agonistici. «Dobbiamo riempire la curva così ti spieghiamo cos’è Roma», dice un altro in collegamento col mitologico e cattivissimo Marione. «Ti spieghiamo», si intende all’allenatore Luciano Spalletti, stranamente impegnato a ridisegnare la leggenda al ribasso, proprio ora che la leggenda dovrebbe prendere piano piano il posto del calciatore. E chi si aspetta per pregiudizio una geremiade sbrodolata e irrazionale, sbaglia. Marione e i suoi colleghi delle instancabili radio sportive sono attenti a contenere le inevitabili derive complottistiche.
Uno ci prova: «Devo usare una parola grossa: politica. Qui c’è dietro un disegno che porta la società verso una precisa direzione, e ci sono mass media che reggono questo gioco». Adesso non esageriamo, gli rispondono. Un secondo si lancia in complicate analisi azionarie: «Ma scusate, Totti non è socio di minoranza?». «Si, perché?». «Vabbè, allora è tutto chiaro, il compito è quello di distruggere l’immagine di un socio di minoranza potenzialmente molto scomodo». «Ma no, dài, ha quote minime… Non c’entra niente…».
E infatti quando poche settimane fa la questione era stata chiara, la marginalizzazione di Totti decisa dal nuovo allenatore, Roma pareva divisa in due, chi sosteneva l’inadeguatezza al campo, se non per pochi minuti, di un fuoriclasse avviato ai quarant’anni (li compirà a settembre), e chi invece lo voleva più al «centro del villaggio», il punto destinato ai monumenti. Ora Totti guadagna quasi il plebiscito perché, come accennato sopra, la vicenda è andata oltre i moduli, le pagelle, la propensione al gol, la tenuta atletica, adesso ha a che fare con il sentimento intimo e inviolabile di un popolo.
«The King of Rome will never die» – il Re di Roma non morirà mai – è la parola d’ordine diffusa da decine di microfoni. I tifosi nemmeno parlano di secondo posto in classifica, di qualificazione diretta in Champions League, parlano di «un uomo solo contro l’ingiustizia», di «senso di malinconia per il tramonto della Storia (il maiuscolo è nostro, ma alla radio si coglieva)», di «mancanza di riguardo per il cuore di milioni di persone». Ecco, di mezzo si è messo il nuovo marziano, l’allenatore Spalletti che maltratta il Re, una specie di Ignazio Marino della panchina le cui colpe vanno oltre i risultati – fin qui per la squadra molto buoni – e investono piuttosto l’idea millenaria di grandezza, anche applicata al calcio, che Roma conserva di sé. «E’ tornato perché evidentemente aveva dei conti da regolare», dicono gli ascoltatori. E poi: «Se non sai chi siamo, che cosa abbiamo nel cuore, per te non c’è futuro».
Nel cuore c’è la speranza che la favola si concluda come era scritto: Totti è rimasto a Roma per venticinque anni, sebbene altrove avrebbe vinto di più, perché le coppe e gli scudetti non sono la cosa più importante; ed è questo che Spalletti non ha capito.