La corte non crede a De Santis quando dice di aver sparato mentre veniva massacrato dalla contro aggressione dei napoletani. Non gli crede – scrive il Corriere della Sera – quando dice di essersi maciullato un piede chiudendo alle sue spalle il cancello di ingresso sotto la spinta degli inseguitori. Non gli crede quando dice che la pistola non era sua. La ricostruzione considerata veritiera è quella del professor Costantino Cialella, consulente della procura, il quale ha dimostrato che De Santis non era ferito fino al momento di sparare e che indossava i guanti al momento di farlo (uno dei punti più controversi del processo per «collocare» le tracce di sangue e di polvere da sparo). L’ultrà sparò «nel mucchio ad altezza uomo», colpendo con tutti i proiettili. Non ci può essere legittima difesa perché «Danielino» sapeva a quali rischi andava incontro, tanto da portare con sè un arma già carica. Nè vale come alibi il fatto che fosse nel mezzo di un coca party nella sua baracca-abitazione. Anzi, la droga gli avrebbe dato un senso di «onnipotenza correlato all’incapacità razionale di valutare i fatti».
Secondo i giudici «l’intensità del dolo dimostrato da De Santis è dunque «massima, fino a lambire le soglie della premeditazione». Le «gravissime e invalidanti» ferite da lui riportate fanno però pesare le attenuanti generiche tanto quanto le aggravanti. E questo spiega il mancato ergastolo chiesto dai pm Eugenio Albamonte e Antonino Di Maio.