(M. Pinci) C’era una volta Francesco, che sognava di fare il calciatore. Non c’era il castello di Tor Crescenza, che ha prenotato per soffiare sulle 40 candeline. Le prime dieci le spense nell’appartamento al primo piano di via Vetulonia 18. Gli invitati non erano trecento, ma una decina di amichetti. E non si chiamavano Daniele De Rossi o Luciano Spalletti, ma Diego e Angelo, bambini del quartiere con cui scavalcava le ringhiere della scuola Manzoni per andare a giocare nel cortile sotto lo sguardo innamorato delle ragazzine. Ma nella vita di Francesco Totti una cosa era come oggi: il pallone. «Il primo? Mi pare di vederlo ancora, un Mikasa a pentagoni neri e esagoni bianchi. Il classico, insomma ». Riccardo Totti ricorda bene quando il fratello era un frugoletto biondo che gironzolava portando sotto il braccio quella sfera di cuoio: «All’inizio faceva nuoto, alla “Pucci”, a piazza Epiro, un minuto da casa. Ma non era cosa, non gli andava. Voleva giocare a calcio». L’universo di quel ragazzino era il quartiere: c’era il flipper al bar Lustri, Bruno gli metteva uno sgabello sotto i piedi, perché il colosso di Roma a dieci-undici anni era un bimbetto che non arrivava al metro e trenta. «Lo chiamavano lo gnomo».
Come tutti i bambini, oltre al pallone aveva dei giocattoli. Il preferito: «La pista delle macchinine elettriche, le Polistil, più del Subbuteo». Poi arrivò il Commodore 64, che a casa Totti iniziò a monopolizzare i pomeriggi nella cameretta che Francesco divideva con Riccardo, accanto alla stanza di papà Enzo e mamma Fiorella e quella dove dormivano i nonni. Più spesso il ragazzo che sarebbe diventato Totti decideva per lo “struscio”: lungo la strada incontrava gli amici, molti non avevano il citofono e per chiamarli bisognava strillare lungo la rampa di scale: «Entrava nel portone e si metteva a chiamarmi: “Francé scendi”. Era mio padre a rispondere, ma lui mica s’intimidiva». “Francé” è Francesca Romana De Luca, il cuoricino che batteva più forte sul muretto della Manzoni per il giovanissimo Totti. Un paio di anni a scambiarsi le prime tenerezze, i primi baci, tra gli 11 e i 13 anni. «Ero innamoratissima, era bellissimo, biondino, occhi celesti: un principe azzurro. Non chiacchieravamo tanto, lui non parlava granché. Faceva un po’ lo scontroso. E quando partiva per le vacanze mi struggeva il cuore: ogni tanto mi mandava una cartolina, però. Ancora mi ricordo l’emozione nel riceverla». Sulla spiaggia di Torvaianica, dove Enzo e Fiorella avevano una casetta, niente pallone di cuoio. «D’estate sul bagnasciuga usavamo il Tango, di gomma. Il Super Santos no, volava da tutte le parti con le “stecche” che gli tirava», racconta Riccardo. Era già una stellina nella zona, ma quando giocava alla Fortitudo la gara di palleggi la vinse un altro bambino, si chiamava Renato, chissà dov’è, chissà se lo ricorda, se lo racconta. La prima “sconfitta” della carriera il piccolo Totti la prese con filosofia: durante la premiazione continuava a palleggiare. Sul campo però litigare era facile. Una volta pure con il cuginetto: non si salutarono per tre giorni. Fino alla partita successiva. Tanto campo, poca socialità: «Ai compleanni non veniva: lui “rosicava”, ma la mamma non voleva saltasse un allenamento. È stata la sua fortuna».
Francesco lo raccontano schivo: «Gli altri bambini delle scuole calcio erano un po’ bulletti, lui no. Anzi». Amico di tutti, la confidenza la dava davvero solo a un paio di ragazzi. Nessuno lo ricorda capriccioso, ma nemmeno un burlone. «In classe era silenzioso, incideva il banco col taglierino scrivendo “forza Roma”. Poi a ricreazione giocava a pallone nell’atrio con la carta della pizza rossa »: l’immagine è rimasta negli occhi della signora Luciana, operatrice scolastica alla scuola media Pascoli, sulla cui facciata oggi c’è un suo ritratto gigante. «Nei bagni fino a poco tempo fa c’erano le scritte che gli avevano dedicato le bambine, erano pieni di “Francesco ti amo”. Lui non lo sapeva, era sempre preso dal calcio. Litigava pure con il professore di educazione fisica, che lo buttava fuori perché non voleva fare le flessioni». Il professore era Domenico De Zen: «In realtà – dice – non saltò mai un’ora di ginnastica. Altri bambini si facevano esentare per le gare di nuoto. Lui prima faceva lezione e poi andava a giocare i tornei giovanili. Poi il giorno dopo mi faceva vedere le ginocchia sbucciate, ne era quasi orgoglioso». Del suo talento s’accorse presto grazie al cugino di Francesco, Angelo Marrozzini. «Mi disse: “prof, fai giocare mio cugino? È bravo, forse lo prende la Roma…”. Alla prima partita lo misi dentro verso la fine: era il più piccolo, faceva la prima media. Entrò e iniziò a dribblarli tutti, come birilli. I genitori degli altri bambini mi facevano il verso: “Dalla a Totti, dalla a Totti”. Una mamma una volta mi disse: prof ma perché fa giocare sempre quel biondino? Quando il figlio, dopo tre gol di Totti, sparò la palla fuori dal campetto a porta vuota le dissi: ha capito signora perché gioca il biondino?». Ha 40 anni e si diverte ancora.