(E. Sisti) Non basterà l’accoglienza calorosa dell’interessato Fabrizio Sardagna Ferrari von Neuburg und Hohenstein che domani sera gli stringerà la mano sulla soglia del Castello di Tor Crescenza di cui è ancora proprietario (dopo il dissequestro avvenuto intorno a ferragosto) perché undici anni dopo la festa del suo matrimonio con Ilary Blasi Francesco Totti tornerà proprio in quel seducente luogo che affaccia sul verde dei Due Ponti, fra Cassia e Flaminia, per celebrare i suoi 40 anni. Non basteranno i sorrisi degli amici che interverranno, almeno trecento. E non sarà sufficiente l’amorevole vicinanza dei tre figli, Cristian, Chanel e Isabel, che prima dell’inizio del non proprio economico festone organizzato dall’Alphaomega (si parla di una spesa di più di 300 euro a ospite) diverranno i protagonisti indiretti del compleanno di papà un paio d’ore prima durante la festicciola in famiglia, tanto per ricordare anche nell’intimità quanta strada sia passata sotto i (due) ponti. E infine non è bastato l’applauso, una sinfonia riconoscente, in cui si è stretto un altro stadio Olimpico, quando ieri è il ragazzino è entrato in campo, come se davvero Francesco Totti fosse il campione di tutti, rappresentante di un calcio italiano solido e poetico in lento dissolvimento.
E ovviamente non sta bastando, neppure a 24 ore di distanza, l’aver siglato con quell’inutile rigore il suo 250° gol in serie A, magra consolazione individuale a coronamento di una disfatta collettiva, fisica e mentale, suggello senza valore di una partita che la Roma non deve dimenticare per nessuna ragione al mondo, anche se vorrebbe tanto. Totti è uscito immusonito, preoccupato e soprattutto sconfitto. E da una lacrima sul viso, è storia, si capiscono molte cose. Genetliaco amaro dopo l’ardere festoso degli ultimi giorni. La sua Roma è ormai un trattore senza benzina e con le ruote impastate di fango: «Troppi alti e bassi, poca cattiveria, le partite non si risolvono da sole» dice Spalletti dopo aver rischiato di fare, davanti al sontuoso Torino che corre e sa stare in campo, davanti a Belotti formato Torres e a un mare di ex (il cinico Iago Falque autore di una doppietta, Castan, Ljajic, Bovo e se vogliamo anche Mihajlovic), la stessa figura che aveva in settimana fatto il Crotone lasciando che la Roma credesse d’essere una squadra capace e continua. Non è così. Zavorrata dai suoi fantasmi emotivi, priva di carattere, alterna nelle giocate, costretta a sperare che Dzeko veda la porta una volta nella vita quando serve, perennemente illusa da alcuni giocatori che non sono più gli stessi, aggrappata alla presunzione di potersi affidare a centrocampisti senza più dinamismo, schiacciata da equivoci tattici che il tecnico continua, anche per necessità d’organico, a eternare (Florenzi e Peres non possono fare stabilmente i terzini in una difesa a quattro), la Roma perde con pieno merito in casa del Torino dopo 26 anni (segnò allora Ciccio Romano) e apre una fase in cui tutto diventa possibile perché nel suo progetto non v’è più nulla di sicuro, né di saldo. E Totti sta lì, sospeso, sopra un mondo che, piaccia o no, dipende ancora da lui. Ieri, senza Szczesny, la Roma avrebbe rivisto Roma dopo aver perso 5-1. Proprio una bella festa.