(G. Dotto) – L’ultima giornata di campionato la dice lunga sull’abisso che divide la Juventus dalla Roma (e da qualunque altra squadra italiana). E spiega bene perché anche quest’anno marciremo nella solita storia e reggeremo l’abito della solita sposa. La Juventus vince sempre, vince soprattutto quando non merita di vincere (l’ultima, in casa con il Napoli), la Roma riesce a non vincere anche quando stramerita di stravincere (in trasferta a Empoli).
Non credendo al destino o a una metafisica del nome, proviamo a spiegare, oltre la scontatissima considerazione geo/ambientale di quanto sia più facile focalizzarsi da bipede calciatore a Torino, piuttosto che in una città dispersiva come Roma, dove i tentacoli sono tanti e a ogni tentacolo corrisponde una tentazione e ogni tentazione compensa l’eventuale frustrazione. Detto altrimenti, se fallisci a Torino ti senti una calpestabile merda, se fallisci a Roma il dramma è sempre opinabile, astratto, poiché resta comunque dolce la vita.
Ventidue anni dopo, questa di oggi resta nell’anima e nei codici la Juventus di Moggi, Giraudo e Antonio Conte. Che all’epoca era solo un mastino da campo ma, da mastino di campo, incorporò più di ogni altro giocatore la matrice Moggiraudesca della ferocia applicata al calcio, che portò alle conseguenze estreme il motto bonipertiano del “vincere non è importante, è l’unica cosa che conta”.
Luciano Moggi arriva alla Juve nel ’94, guarda caso dalle morbidezze ponentine della capitale, come “lo stalliere del re che deve conoscere tutti i ladri di cavalli”, copyright Gianni Agnelli. Resterà dodici anni a Torino, il tempo di vincere 7 scudetti, 1 Champions e 1 Coppa Intercontinentale, più non so quante altre coppe sparse e finali perse. Il tempo soprattutto d’iniettare nel mondo bianconero il primo comandamento che vincere non può essere un opzione legata ai capricci ingovernabili del pallone, ma deve diventare un destino.
La Juventus deve vincere in qualunque modo e, quando si dice “qualunque”, vuol dire qualunque. Così, mentre si consentiva all’Avvocato di continuare a esibire la sua visione dandy del calcio, Moggi e Giraudo facevano il “lavoro sporco”. I due s’incaricano di far sì che questo “qualunque” non ammetta eccezioni, curano i dettagli, inesorabili, dentro e fuori il campo, tra uffici, corridoi e cellulari. Moggi, in particolare, instaura una dittatura della disciplina ai confini del terrore. Chi “non è da Juve”, i giocatori che non stanno in riga, finiscono in un tableau alle sue spalle, dietro la mega scrivania del suo ufficio allora a piazza Crimea.
La vittoria diventa destino. Un logo e un logos spietato del mondo juventino. Tutto si allinea. La Juve vince sempre o quasi. Se non sono i giocatori, sono gli arbitri, non necessariamente dolosi. Anche quando sono onesti obbediscono al richiamo del destino. Qualcosa di più sofisticato della banale “sudditanza”. Nel dubbio fischiano pro Juve, anche loro ammaliati dall’imperioso appeal del marchio bianconero. Non possono ammetterlo a se stessi, ma interiormente sanno di essere anche loro soldati al servizio di quel destino. Anche gli avversari si allineano. Scendono spesso già rassegnati in campo. Sanno che in ogni modo la sconfitta è certa. Vedi l’ultima Sampdoria di Giampaolo, che si presenta senza i quattro titolari più importanti.
Li si lascia riposare per il match successivo, perché i punti si fanno altrove dove il copione non è scritto a monte. Se non sono i giocatori, gli arbitri (il cui inconscio è ultimamente ridisegnato dagli scandali e dalle nuove tecnologie) o gli avversari, ci si mette la sorte, che sarà bendata ma ci vede benissimo, ed ecco (vedi Napoli) il caso più unico che raro di un difensore nemico che rincitrullisce all’improvviso e s’inventa due assist da oratorio a vantaggio Juve.
La costruzione di un destino, ecco quando si dice la “forza di una società”. Chi finisce dentro questa tela, che non è quella di Moggi, subisce uno stravolgimento psichico e antropologico. Un vero lavaggio del cervello. Questo è l’aspetto più impressionante. Due casi tra i tanti. Leonardo Bonucci e Max Allegri. Quando arrivano alla Juve sono due tiepide mammolette.
Un viterbese bravino ma anonimo (era Ranocchia, dei due, quello forte al Bari) e un sempliciotto affabile con molti denti e quella furbizia toscana che lo aiuta a navigare in tutti mari. In poco tempo i due si trasformano. Diventano due belve da combattimento. Chi ha conosciuto Allegri al Milan non lo riconosce alla Juve. Ha imparato, nel frattempo, a portare la voce in conferenza stampa, tuonando sulle masse inermi dei giornalisti. Memorabili e comici i suoi siparietti da tarantolato a fine partita, quando la Juve vince quattro a zero e lui dà di matto perché Sturaro perde un pallone.
Prendi Hernanes, un altro animo mite all’origine, inquadrato più volte sabato in primi piani di purissima ferocia agonistica. Manca ancora il blando Pjanic all’appello, ma è questione di tempo. Tutti gli altri sono imbevuti del dogma juventino, chi da leader, i Buffon, i Chiellini e i Barzagli, prima ancora Cannavaro e Ferrara, chi da gregario. Guardateli una volta fuori dalla suggestione Juve: tornano quello che erano prima, faticano a emergere anche come commentatori televisivi o allenatori della parodia calcistica made in Cina. Cambiano i nomi e le facce, ma restano Moggi, Giraudo e Conte gli autori di questa invincibile Juve.
Contro questa corazzata (l’aggettivo vale quanto il sostantivo) sublimata dal potere fondante del logos uguale destino si battono fragili e ondivaghe navicelle. La Roma degli americani. Fin troppo esplicitamente focalizzati sul business da stadio. Sbranata peraltro da beghe interne, assatanati censori al microfono nell’ora del dilettante, che a Roma dure 24 ore. Tenuta in piedi da un eroe omerico e solitario, quel Luciano Spalletti da Certaldo, uno contro tutti, una specie di Custer romanticamente votato alla sconfitta che, quando le frecce piovono da ogni dove, arriva al punto di testimoniare il suo malessere con lo show teatralmente superbo del cranio più volte flagellato sul tavolo.
O il Napoli che non ha la forza di trattenere il suo giocatore migliore e affida le sue sorti a un uomo intelligente ma naif come Sarri, bukowskianamente e provincialmente ossessionato dalla verità, al punto di non rendersi conto che definire affettuosamente il suo “assassino” di giornata, Higuain, come un suo figlio prediletto, sarà anche bello ma è uno sfregio a una città ferita, che invece lo vive, “il prediletto”, come un odioso traditore.
Fonte: Dagospia.com