(A.Austini) – Scrittore, giornalista, autore teatrale, per anni al fianco di Carmelo Bene. Con un curriculum così, tutto ti verrebbe da pensare tranne che al pallone. E invece Giancarlo Dotto è anche un giornalista sportivo nonché accanito tifoso romanista, ma con un punto di vista decisamente diverso dalla massa. I suoi recenti articoli su «Dagospia» lo hanno fatto diventare una sorta di simbolo intellettuale dell’anti-Tottismo. Mentre quelli che lui definisce «obesi mentali» continuano a celebrare il mito infinito del capitano, lui prova a spiegare gli effetti collaterali dell’adorazione per il pupone che toglie forza al resto della Roma. Un pensiero che Dotto accetta di approfondire con Il Tempo.
In un’intervista a Walter Veltroni sul Corriere dello Sport Totti ha confermato di pensare a un suo futuro da allenatore. Ha letto?
«Sì, un’intervista in coma diabetico già nell’introduzione, mi pare che Veltroni riesca a oscurare le interviste celebratorie di Fazio. Sembra che Veltroni abbia una smania incontinente, elogia qualcosa e qualcuno già talmente idolatrato da non averne alcun bisogno. Una celebrazione che non celebra, perché definire Totti genio del calcio, arguto, divertente, saggio, bello, buono, non lo aiuta. Lo fa molto di più Sabatini in una frase che Veltroni in un’intervista intera, inventando metafore. Parlare del talento di Totti come magica follia o poetica sfrontatezza a cosa serve? Sono espressioni liceali che non aggiungono nulla. Ma Veltroni ha la sindrome di cercare fanciullino in tutti noi, ne ha fatto un’operazione di marketing. Il suo è un fanciullino stucchevole, melenso, io andrei piuttosto a cercare quello che non si conosce, il fanciullino delle paure, che si nasconde nelle cantine. Veltroni intervistatore mi ricorda i boy scout che aiutano le vecchine ad attraversare strade pericolose anche quando queste donne non sono vecchine e le strade non sono pericolose. Ha ucciso definitivamente il genere delle interviste. Questa è inutile, pessima, superflua, un prete che celebra messa».
E le risposte di Totti?
«L’unica perla involontaria è quando, parlando di sé da bambino, si definisce un “tappo”, è in qualche modo profetico. Ha creato un legame con le parole di Sabatini che lo ha definito nello stesso modo anche se aveva ben altro in testa. Da un Walter all’altro, di quanto ha detto l’ormai ex direttore sportivo ne penso tutto il bene possibile. Il concetto di “Totti tappo della Roma” è inconfutabile. Trovo ottuso, grottesco, ridicolo che non lo si voglia riconoscere nella sua giusta dimensione. Sempre nell’intervista, in cui sembra un santino, Totti dice: “io non ho mandato via nessun allenatore”. Sarà anche vero, ma i tecnici si mandano via in tanti modi. Il primo è quello di destabilizzarli, il secondo non prendendo mai posizione pubblica nel momento in cui sono in difficoltà. L’ho detto anche aGarcia, che è un’anima leale e semplice, quando Totti fece quel gesto al momento di una sostituzione, togliendo dalla spalla la mano che Rudi gli aveva appoggiato come se fosse la cacca di un piccione, ha ucciso l’immagine del francese a Roma. Questo Rudi non lo ha mai capito fino in fondo. Letale. Così come il “piccolo uomo” di Ilary ha causato un danno infinito, creando un’associazione ingiusta perchéSpalletti tutto è tranne che un piccolo uomo. Si uccidono pianisti e allenatore in modi diversi. Ad esempio lo scorso anno Totti se ne uscì con quell’intervista alla Rai mentre la squadra viaggiava a gonfie vele. Non ha mai esercitato la sua leadership fuori dal campo, soprattutto quando poteva intervenire per mettere un argine a questa idolatria dirompente. Quando le dici o le scrivi c’è sempre qualche imbecille che ti ricorda che Francesco è fortissimo. Nessuno ne mette in dubbio il talento, ma se lui fa un tacco da “parrocchia” cadono giù le tribune».
Quindi è un problema per la Roma?
«È un tappo che veramente oscura toglie più di quanto dà. In campo restringe le linee di calcio, tu vedi che sono tutti ossessivamente votati a passargli la palla. Io aggiungo che all’interno del clan romanista, anche fra i più intelligenti, si è creata una sorta di sindrome di Stoccolma. Giocatori leader come Strootman si trovano costretti a dire che con il capitano in campo si sentono più sicuri. Pensano: “Io sono in una città sequestrata dal mito di Totti, non posso ribellarmi e quindi mi adeguo”. L’unico che, poverino, ha provato a uscire dal coro è stato Nainggolan. Sarà un caso, sto scherzando, ma da quando lo ha detto ha smesso di giocare al calcio. Quindi Totti non ha mai mandato via allenatori, è vero, ma quello che c’è attorno a lui, questa monocrazia, lui non ha fatto nulla per riconciliarla in nome della Roma».
Ce lo vede su una panchina?
«Tutto può succedere, lo dice anche lui onestamente di dover cambiare. In genere essere un fuoriclasse non significa diventare un grande tecnico, abbiamo casi contrari. Guardiola è il genio assoluto, dall’altra parte c’è un esempio come Falcao. Se Totti pensa che il suo nome carismatico possa di per sé farne un grande allenatore sbaglia. Anzi estende in modo allarmante questa minaccia del “tappismo”. Rischia di uccidere la creatura Roma, se fosse veramente romanista capirebbe che sul suo nome si consuma idolatria pericolosa che va contro agli interessi del club e cercherebbe un ruolo dietro le quinte, un po’ come quello di Zanetti nell’Inter. Se invece dovesse sedersi sulla panchina giallorossa avremmo per altri vent’anni una città che sposa il suo nome invece della squadra e io smetterei di occuparmene».
E De Rossi?
«Lui potrebbe essere un dirigente straordinario, calato in un ruolo in cui tutta la sua esperienza e intelligenza sarebbero una torcia preziosa e verrebbe meno il suo lato oscuro, questa emotività disordinata da tifoso che gli procura danni. Sarebbe davvero il Dirigente ideale in un futuro prossimo. Per il momento vedo molto bene l’accoppiata Massara-Balzaretti».
Quanto perde la Roma con l’addio di Sabatini?
«Non so se sia stato il migliore, da tifoso sono molto orgoglioso di averlo avuto, sicuramente la Roma perde questa sua meravigliosa capacità di frequentare il calcio con l’animo del bucaniere, di indovinare soluzioni calcistiche laddove non ci sono. La sua morbosità lo ha sempre portato ad eccedere e azzardare, per lo stesso motivo per cui invece di 20 sigarette ne fuma 80. Va via una forte anima in una società che ne ha veramente poca, per fortuna ha trovato una forte presenza con Spalletti, ma l’ambiente è sempre quello, anche lui è già corroso. Le anime forti qui non ci sono e quando vengono tendono ad essere divorate. Come successo a Baldini. A lui ho sempre rimproverato di non essere riuscito a tenere le giuste distanze da questi piccoli cannibali. Roma sembra fatta solo per allenatori risultati di algoritmi: Liedholm e Capello sono stati non a caso gli unici a vincere con la loro capacità di farsi scivolare di dosso le cose. Il Barone per la saggezza innata, Capello grazie all’immane feroce pragmatismo che lo ha sempre portato ad andare oltre».