(A. Stabile) A distanza di 47 anni da quella tragedia Roberto Morassut, deputato del Pd e scrittore da sempre attento alle vicende di Roma, cerca di fare luce sulla vita e sulla morte del calciatore giallorosso con un libro, “Giuliano Taccola. La punta spezzata” (Palombi Editori), che sarà presentato lunedì 14 novembre alle 17.30 al cinema teatro Don Bosco di Roma, in via Publio Valerio 63. Ospiti annunciati gli ex calciatori della Roma Ciccio Cordova, Alberto Ginulfi, Giacomo Losi, Vito D’Amato, Angelo Orazi oltre a Walter Veltroni e Luca Di Bartolomei.
Come è nata l’idea di scrivere un libro sulla storia di Taccola?
«Questo libro ha due radici: una lontana nel tempo perché quando ero piccolo e andavo a vedere la Roma allo Stadio Olimpico c’era un enorme striscione su Taccola che mi ha sempre colpito. Era una vicenda preoccupante per un bambino di 7-8 anni perché si raccontava che Taccola era morto “per una bibita ghiacciata” e quindi passava il messaggio che bisognava stare attenti a non sudare troppo perché si poteva anche morire. La seconda radice del libro sta in una trasmissione televisiva che vidi anni fa in cui si parlava delle circostanze “nebulose” intorno al decesso di questo calciatore».
E così è iniziato tutto…
«Ho scritto alla procura di Cagliari per avere accesso agli atti dell’inchiesta giudiziaria del 1969-70 sulla morte di Taccola e il dottor Mura, che ringrazio, me ne ha dato la possibilità. Mi sono immerso nelle lettura degli atti e da lì è nata l’idea di scrivere un libro su Taccola con, sullo sfondo, la storia di Roma e della Roma di quegli anni».
Quali sono state le altre fonti del suo lavoro?
«Fonti di carattere giornalistico, qualche libro sulla Roma e poi le testimonianze di alcuni compagni di squadra di Taccola, come Franco Cordova, che era suo compagno di stanza nelle trasferte, Vito D’Amato, Giacomo Losi, Alberto Ginulfi».
Quale era lo stato di salute dell’A.S. Roma in quegli anni?
«Sono andato un po’ indietro nel tempo è ho ricostruito i motivi che hanno portato la Roma del 1968-69 a essere particolarmente sofferente sul piano economico-finanziario con un grande caos organizzativo che incise non poco, involontariamente, sulla sorte del povero Giuliano Taccola».
In che modo incise? Si spieghi meglio.
«Tra il 1968 e il 1969, proprio nei mesi in cui Taccola si ammalò e morì, la Roma passò di mano attraverso tre presidenti, in modo complicato dal punto di vista politico. Si passò da Franco Evangelisti, uomo di Andreotti (influentissimo su Roma e sulla Roma), ad Alvaro Marchini, costruttore, imprenditore e organicamente legato al Partito Comunista (e tra i due ci fu l’interregno di Francesco Ranucci, n.d.r.). In quel periodo nella Roma c’era grande disorganizzazione anche nello staff medico, come documentano peraltro gli atti dell’inchiesta giudiziaria di Cagliari. C’erano medici che confliggevano tra loro, buchi di responsabilità e un allenatore, Helenio Herrera, che aveva un rapporto conflittuale con i dottori».
Quale fu il ruolo dell’allenatore della Roma in quella vicenda?
«Herrera non si fidava molto dei medici, riteneva di poter gestire direttamente la profilassi e la cura dei giocatori quando stavano male. E questo creava una confusione in cui la vicenda di Taccola rimase intrappolata».
Perché è morto Giuliano Taccola?
«Taccola aveva una cardiopatia già da alcuni anni, non diagnosticata nella sua esattezza e nella sua gravità, che poi degenerò in un collasso cardiocircolatorio fulminante a causa di un’infezione alle tonsille mal curata. Anche perché Taccola era costretto ad allenarsi, la Roma aveva bisogno di questo campione, così bravo nel fare gol».
Si sarebbe potuta evitare la sua morte?
«Sicuramente se ci fossero stati controlli più attenti, come quelli introdotti negli anni successivi. All’epoca, per quanto riguarda l’idoneità sportiva, c’era una legge del 1950 che quasi nessuno rispettava e che prevedeva, se i controlli non venivano fatti a Coverciano, soltanto una multa di 50 mila lire. Se ci fosse stata più oculatezza ritengo che Taccola avrebbe smesso di giocare, avrebbe fatto altro, ma sarebbe sopravvissuto».
Se fosse stato meno forte forse oggi sarebbe ancora con noi?
«Si può anche dire ciò. Taccola era un patrimonio per la Roma, valeva 200 milioni».
Quanto sono state preziose le testimonianze raccolte nella stesura del libro?
«Mi hanno aiutato a ricostruire la figura di Taccola. Soprattutto Cordova, che era suo compagno di stanza a Cagliari, il 16 marzo 1969, quando Giuliano morì. Mi ha raccontato che quella mattina il massaggiatore Minaccioni li svegliò e disse loro di scendere ad allenarsi perché, anche se erano riserve, Herrera voleva comunque che facessero degli esercizi fisici. Cordova, nella sua testimonianza, dice che Taccola era visibilmente stanco, non riusciva ad alzarsi, aveva il volto pallido, non voleva neanche andare al bagno per farsi la barba. Cordova mi ha raccontato di averlo anche trattato un po’ male dicendogli che sembrava un barbone».
Capitano Losi cosa le ha detto?
«Losi mi ha raccontato del rapporto sofferto con Herrera, che era un allenatore vincente e innovativo, ma spesso aveva rapporti difficili con i calciatori. E poi aveva l’abitudine di dare pastiglie, anche all’Inter, su cui si è molto favoleggiato. Probabilmente però erano solo pasticche “motivazionali”, una sorta di placebo contenente zucchero e aspirina che convincevano i giocatori che avrebbero corso più forte. Losi mi ha detto di non aver mai avuto prova che fossero pasticche dopanti, ma lui, a scanso di equivoci, le buttava e chiedeva ai compagni di buttarle».
Nel libro si parla della battaglia che ha fatto per anni la signora Marzia Nannipieri, vedova di Taccola?
«Certo, lei e i due figli, ormai quasi cinquantenni, hanno dovuto affrontare una vita piena di difficoltà. Vivono in una frazione di Uliveto Terme, in provincia di Pisa. Ho incontrato la vedova Taccola, è una donna segnata da questa triste vicenda e da rapporti non proprio pacifici con la Roma nel corso degli anni. Nel 2001 ebbe accesso agli atti delle indagini e presentò denuncia per omicidio colposo, ma l’inchiesta fu archiviata per prescrizione. Non c’è dubbio che, alla luce dei tanti errori fatti, la famiglia Taccola abbia subito un’ingiustizia».
Come è possibile che non si siano mai individuati dei responsabili?
«L’inchiesta della procura di Cagliari per omicidio colposo nei confronti di Herrera e del medico sociale della Roma si chiuse con un’archiviazione. Credo, alla luce degli atti, che non ci fosse possibilità di un esito diverso. Si può però dire che, nei passaggi di carte sulla certificazione medica, ci furono enormi trascuratezze. Già nel 1966, quando Taccola militava nel Genoa, c’erano certificati che testimoniano come già allora la patologia cardiaca del calciatore fosse complessa. Poi nel febbraio 1969 fu operato alle tonsille per una grave infezione e avrebbe dovuto restare lontano dai campi di calcio per un mese e fare una serie di analisi: invece tornò ad allenarsi dopo due settimane e giocò sotto la pioggia. Il suo rientro fu anticipato in modo sbagliato senza fare alcune analisi che erano state prescritte. Nello staff medico della Roma c’era un gran caos organizzativo. Taccola poteva essere salvato, ma in questa situazione è difficile identificare un responsabile della sua morte».
Non dovrebbe pagare chi gli ha dato l’idoneità?
«Sicuramente se il certificato medico e l’ecocardiogramma fatti a Coverciano nel dicembre 1966, quando Taccola era al Genoa, fossero stati letti con scrupolo e trasmessi alla Roma, che ingaggiò l’attaccante nell’estate del 1967, forse qualche dottore avrebbe potuto chiedersi se il calciatore aveva qualche problema. In quel certificato medico si spiegava che “i tempi di recupero del giocatore erano faticosi”, che “non doveva subire carichi di lavoro eccessivi”, che “sotto sforzo il cuore manifestava dei problemi” e si chiedeva che dopo due mesi venissero fatti nuovi esami a Coverciano, che non però vennero mai svolti. Quando la polizia giudiziaria andò dal Genoa a cercare le cartelle cliniche del giocatore, dissero che era andato tutto al macero».
Chiudiamo con un sorriso: cosa emerge nel suo libro di Giuliano Taccola, giovane talento del calcio italiano.
«In un capitolo, intitolato “17 reti indimenticabili”, descrivo nel dettaglio ogni rete segnata da Taccola. Faceva gol in tutti i modi. Rivedendoli ci si accorge che era davvero un grande attaccante: segnava di destro e di sinistro, di testa, in acrobazia, aveva un dribbling eccezionale, partecipava alla manovra e non era attendista. Se avesse giocato in una squadra più forte sarebbe sicuramente arrivato alla nazionale. Tutte le sue caratteristiche sono sintetizzate in un gol incredibile che segnò l’8 ottobre 1967 a Ferrara contro la Spal: fece un’azione alla Messi, o alla Baggio prima maniera, prendendo palla sulla trequarti, bevendosi mezza difesa avversaria, toccando di destro e sinistro fino a superare il portiere Mattrel e a entrare in porta con tutto il pallone. Cercate questo gol su internet e avrete l’immagine di un grande attaccante».
Fonte: ilposticipo.it