Il problema della Roma non è la sconfitta con l’Atalanta, non è un secondo tempo in cui la squadra sparisce, non sono i cambi di Spalletti o i gol sbagliati da Salah. Il problema è a priori. È nel non prendere coscienza dei propri limiti e di conseguenza dichiarare guerra al mondo: naturale poi, ancor prima che sbagliato, che ogni passo falso venga considerato e digerito come una disfatta.
Tutto qui, niente più. Il punto sta nel credere che basti un mese e mezzo per sentirsi alla pari di chi ha cinque scudetti di fila sulle maglie. Perché se le parole hanno un peso, questo è il concetto che nelle due settimane di sosta è circolato forte a Trigoria. Siamo cresciuti, l’aria è diversa, ce la giocheremo alla pari con la Juve.
L’insoddisfazione, il cielo grigio del lunedì post Atalanta è tutto nel non aver dato seguito alle promesse. Che vengono in fila dopo quelle storiche di James Pallotta («Vogliamo diventare un top club mondiale»), di Luciano Spalletti («Non sono tornato qui per altri secondi posti») e di una serie infinita di giocatori, uno dopo l’altro. La sconfitta di Bergamo non è in linea con quelle parole. È invece perfettamente dentro ogni discorso di secondo posto. Occhio, non è arrendersi. È, molto più semplicemente, evitare che una città da sempre abituata agli up and down non si senta giustamente autorizzata a credersi da scudetto un giorno prima e «solo» da Champions il giorno dopo. Lo dice pure qualche numero, peraltro. Lo straordinario rendimento di Spalletti da gennaio a oggi ha prodotto 72 punti in 32 giornate: tantissimi, certo, ma comunque 13 in meno degli 85 di Allegri. E 7 in più delNapoli. Ecco perché forse sarebbe stato bene tenere nel cassetto quelle parole sullo scudetto e sulla Juve.