(G. Dotto) – Avete una barba da grattarvi? Meglio così. Rassegnatevi a tre mesi di nulla. Per fortuna che ogni tanto muore uno come Chuck Berry. Questo è il campionato italiano: un pendolo tra la noia e il tedio. Ucciso in testa dalla ripetizione pornografica del gesto juventino (vinco dunque sono), in coda dalla non meno pornografica ripetizione di Pescara, Crotone e Palermo, aggiungo Empoli (perdo dunque sono). Dodici squadre su venti si svegliano e si svogliano la mattina non avendo un obiettivo per cui esistere. Due fingono di averne uno (Juventus e Fiorentina). Restano Roma e Napoli a battersi per il concetto che vincere in Italia è arrivare secondi, Lazio, Inter, Atalanta e Milan per lo strapuntino in Europa. Punto.
Per fortuna c’è Lucio Spalletti. Due spanne sopra tutti. Sto dalla sua parte, lo dico subito. Mai preso un caffè con lui e non so nemmeno se avrei voglia di prenderlo. E’ il tipo che gode di più a farsela con i detrattori. Fino a due settimane fa lo esortavo a tener duro, a non mollare. Ora gli dico, ma probabilmente se lo dice da solo, scappa, metti più distanza possibile tra te e questa città.
Userò un delicato eufemismo per spiegarlo. Roma non è un ambiente difficile, no. Roma è un ambiente di merda. E voglio dire proprio merda. Ogni mattina saltano fuori dalle lenzuola, mediamente e mediaticamente, e prendono il volo, si fa per dire, decine di mosche stercorarie. Si sgrullano il pisello (e non ditemi che le mosche non hanno il pisello) e guardano obesi l’orizzonte. Chi o cosa possiamo smerdare oggi?Non sono nemmeno cattivi. Sono, per lo più, boriosi cazzoni in eterna luna di miele con se stessi. Il peggio della romanità boriosa, cafona e cazzona. Dagli un microfono o una tastiera e non si contengono più. Si confondono nel mucchio, ma sono quelli che si fanno più notare, rumorosi e disinibiti, ma non perché hanno sconfitto l’inibizione. Sono nati così, meglio sbracciare ogni mattina nella merda, e c’è pure qualcuno che ti paga e ti applaude, che lavorare. Tolgono luce a quelli bravi e un po’ fessi, non pochi, che ci credono ancora al mestiere. Questa è Roma. Unica al mondo. Anche a Napoli e Buenos Aires, radio, web e giornali impazzano. Ma lo fanno con teatralità o passione. A Roma lo senti, lo avverti, che l’invettiva sale apatica da un rigurgito post-prandiale.
Torniamo a Lucio. Adesso hanno deciso che è un caso psichiatrico. Dacci oggi il nostro schizzo di merda quotidiano. Due sentenze buttate lì e vai, un’altra anima nel cesso. Avanti un altro. Piccola domanda: erano psicolabili anche Luis Enrique, Rudi Garcia, gli stessi Zeman e Ranieri? Lo stesso Fabio Capello, scappato via di notte. Perché scappano tutti da Roma? Qualcuno se lo chiede? Qualcuno si risponde? E se non sono le palate dei media, sono gli sputi e le minacce degli analoghi in curva (già dimenticata Roma-Fiorentina, De Rossi che torna nello spogliatoio tappezzato di saliva romanista?).
Perché Luis Enrique, uomo e allenatore di prima qualità, invecchiato di trent’anni, si congeda con la sublime per quanto intimista domanda: “Che cosa ho fatto per meritare tutta questa merda?”. La merda che torna, ancora, pubblica e privata (parlate off record con i dirigenti che sono passati e poi scappati da Trigoria, se volete altra materia scatologica). Perché il nobile Rudi Garcia, uomo e allenatore di primissima qualità, invecchiato di quindici anni, trasforma i suoi ultimi confronti con i media in un catenaccio di protesta, sì, ma anche di rassegnazione? Ho davvero creduto che Spalletti fosse diventato, negli anni pietroburghesi, la reincarnazione latina di Rasputin. Ho tifato perché dietro i suoi svenimenti in campo, i crani picchiati a farsi male, gli allucinati e meravigliosi sermoni tattici, contro ogni buona regola della comunicazione, ci fosse uno sciamano capace di scrollarsi di dosso gli schizzi di merda. Con un lieve e carismatico gesto della mano. Mi sbagliavo. L’ultimo Spalletti è sul solco di Luis Enrique. Quello del cedimento emotivo. Della tortura quotidiana. Ne replica anche, chissà se consapevole, le parole: “Che cosa ho fatto per meritare tutto questo?”, dice dopo Roma-Lione. Allude alla quantità industriale di sfiga che lo ha abbattuto, ma quello che parla in lui, quello che conta, si riferisce in realtà sempre alla stessa cosa, sempre alla stessa merda.
Da queste parti puoi esistere solo se riesci a volare alto e sprezzante. Se finisci con la gomma nel fango (illuminante metafora che Spalletti usa per raccontare la Roma, in realtà raccontando se stesso), non ne esci. Diventi sì un caso da manicomio. Invecchi e ti debiliti. Se non sei un androide dentone che si fa plagiare dal Codice di Boniperti e preferisce dimenticare d’essere partito da Livorno, la città più anarchica del mondo. Se resti invece quel ragazzo di provincia, che si porta dietro tutto e non dimentica sgobbo e umiliazioni, oggi straricco sì e lo fai notare, un po’ buzzurro ma come ti capisco, maniaco e anche un po’ sulfureo, che si dice “sfigato”, con una struggente per quanto dissennata e inusuale fuoriuscita pubblica del proprio tormento interiore (l’equivalente del cranio sbattuto sul tavolo). Perle regalate ai porci. Ma i porci non distinguono, non decifrano, prendono tutto alla lettera e chiedo scusa ai porci, animali notoriamente dall’intelletto fine. Spalletti ha subìto offese tremende in questo suo ritorno a Roma. Non gli hanno risparmiato nulla, giornalisti, tifosi e mogli. Altri si fanno scivolare tutto addosso. Lui no. Abbiamo capito che lui non dimentica. Che quando si presenta alla festa di Totti con la copia del disco “Piccolo uomo” sta goffamente mimando il gesto dell’uomo di mondo, l’uscita elegante dal cul de sac che invece lo stritola e lo ferisce. Nel mondo pecoreccio dello show e dei social nostrani gli insulti vanno e vengono, in quello di Lucio restano marchiati a sangue. Lucio sapeva cosa gli sarebbe toccato, era un mondo che conosceva e già lo aveva ustionato una volta.
Immaginava di poterlo dominare stavolta e si sbagliava. Sapeva anche dell’imperversante idolatria tottiana. Ma l’ha sottovalutata o pensava di poter dominare anche questa. Si sbagliava più che mai. La società non lo ha aiutato. Non può farlo. Impotente e anche un po’ ignava. Prigioniera lei per prima dell’equivoco di MammaRoma, di una città lupa che ama e allatta il suo cucciolo prima ancora della sua squadra.Unica, Roma, anche in questo. Sono cresciuto nel vizioso mondo degli oratori con l’iperbole in testa che, quando arrivano i nostri, questi, travestiti da sceriffi, settimo cavalleggeri o marines, sono sempre americani. James Pallotta, travestito da romanista, sembra chiaro, non è venuto per salvarci. Ma forse neanche loro, i marines, sbarcavano per questo. Magari, una volta di più, il loro business coinciderà con la nostra felicità.
Certo, mi sento di dire che nessuno a Trigoria ha saputo spiegare a Pallotta cosa vuol dire il calcio a Roma, nella Roma. Errore drammatico. Di una società elegante e telegenica, ma lontana dal dunque e dalla gente, che, quando respira, non lascia sui vetri di Trigoria la traccia del suo fiato, tanto appare evanescente. Peccato. Perché Lucio e Roma, la Roma, sarebbero fatti in realtà per amarsi, se fossero liberi di amarsi.
Fonte: Dagospia.com