(T. Cagnucci) – È quasi un errore scrivere oggi di Agostino Di Bartolomei. Perché se è sempre vero che in ogni circostanza di commemorazione c’è il facile rischio della retorica, per Agostino che è stato l’uomo senza retorica è ancora più vero. L’uomo in più per Sorrentino – il film che gli ha dedicato il regista – e per noi – la vita che ci ha dedicato lui.
Un uomo senza posa, ma con la faccia tirata in una smorfia in una punizione con la doppia b da Dibba con la gamba perpendicolare al terreno, tirando via insieme al pallone tutto quello che c’era dietro e che spesso nascondeva. Apposta partiva così forte. Era la bomba di Ago. Il troppo che aveva dentro. Non il fiore, ma il vaso di fiori che tirò nel giro di campo di Roma-Torino e di cui ancora ne raccogliamo i cocci.
La pezza che ci è arrivata tutta insieme in una mattinata di maggio, la stessa data di quella notte, ma altre lacrime e preghiere. La smorfia che aveva quando ha abbozzato un sorriso alzando la Coppa Italia contro il Verona il 26 giugno 1984 perché era l’ultima cosa che stava facendo con la sua Roma. E nessuno di noi sapeva che non sarebbe più tornato. La Sud quella sera aveva scritto uno striscione: “Arrivederci Campione”. Ma non ci siamo più rivisti. È stato un errore persino quello.
“Ci hai insegnato a lottare nella maniera giusta, in campo e nella vita, hai incarnato il sogno di tutti i ragazzi di Roma…” gli scrissero i ragazzi di Roma – che all’epoca erano tutti quelli del Commando – in una lettera fattagli avere prima di quell’ultima partita e prima di srotolare un altro striscione: “Ti hanno tolto la Roma, non la tua Curva”. Persino quello è un errore: la Roma a Di Bartolomei non gliela toglierà mai nessuno, ma lo abbiamo capito solo dopo che si è tolto la vita. E’ quasi un errore scrivere di Agostino Di Bartolomei perché la cosa giusta sarebbe solo viverlo. L’errore è stata l’indifferenza che c’è stata intorno a lui dopo che ha smesso di giocare a calcio, ma anche dopo che era stato mandato via dalla Roma (lui non se ne sarebbe mai andato via, e quell’esultanza col Milan è solo un’esultanza contro l’indifferenza). In una intervista fattagli da Enzo Tortora su un numero del mitico Intrepido del 1980 Agostino racconta di avere due sogni: “Lo scudetto che prima o poi arriverà, e che periferia significhi ancora amicizia e aiuto reciproco, mentre l’indifferenza verso gli altri regna sovrana…”. Difficile commentare. Forse più facile capire cosa ha provato quando si è trovato lui alla periferia degli interessi e dei ricordi, incapace di chiedere aiuto e di vendersi visto che aveva sempre aiutato tutti e non si era mai venduto a nessuno. Era così il nostro Capitano. Era il Capitano. Se Dino Viola ci ha insegnato a scrivere Roma in maiuscolo, Di Bartolomei è stato il carattere di quel testo. E il significato. Se Dino Viola a Genova l’8 maggio 1983 ha detto che “la Roma dopo 41 anni è uscita dalla prigionia del sogno” Agostino Di Bartolomei è quello che ha scardinato la prigione. Con una pallonata. Con un cazzotto tirato al cielo a Pisa. Con una punizione.
Agostino Di Bartolomei è l’unità di misura della nostra storia. In lui non c’è solo la Roma più bella dell’Olimpico col sole, ma c’è pure quella di Testaccio, quella orgogliosa che torna in serie A, a Verona, quella che va in serie B una volta e per questo non si discute ma si ama. La Roma che diventa campione d’Italia allo Stadio Nazionale nel 1942 e che allo stadio Nazionale/Torino ultima in classifica a quattro giornate dalla fine viene tifata sugli spalti da Anna Magnani nel 1951. Perché quand’è così, quando sta male, Roma ha bisogno di Roma.
Ad Agostino a un certo punto è mancata Roma e nessuno gliel’ha data. Poche facce raccontano l’autenticità di Roma come quelle di Anna Magnani e di Agostino Di Bartolomei. La sua verità e anche la sua sofferenza. La sua enorme bellezza e persino la sua più grande sfibrata generosissima passione. La troppa vita che c’è in quei volti. Agostino Di Bartolomei è stato la Roma che ogni volta quando è stata forte ha avuto il suo ottavo Re di Roma (Amadei, Rocca, Pruzzo, Falcao…) e anche quella che in serie B ha avuto Tre Re come Capitano. La Roma dei Capitani. La Roma dei signori e dei popolani. La Roma delle periferie e dei sovrani. La Roma dei Romani. Agostino Di Bartolomei è in tutto questo. Lo ha nei tratti, ma senza mezzo stereotipo, senza mezzo “aho”.
È il capitano dei nostri capitani. È il centro di una coreografia perfetta della Curva Sud. E non è solo un modo di dire: al centro di tutti quei Figli di Roma, Capitani e Bandiere che resteranno il nostro vanto e che nessun altro potrà mai avere, i ragazzi di Roma l’11 gennaio 2015 (più di trent’anni dopo Ago, più di vent’anni dopo Ago…) c’era Agostino Di Bartolomei. Al centro della Curva così com’era al centro del campo. “In campo e fuori a incarnare i sogni di tutti i ragazzi di Roma”. Al centro del cuore. C’è sempre un Ago lì al fondo, dove appuntare uno striscione, un pianto, una bandiera, il nostro ricordo e il nostro destino: è lui che ci obbliga a tornare a quella notte. Sì, sì, non abbiamo scelta. Glielo dobbiamo. Lo dobbiamo a lui e lo dobbiamo a noi.
È questa la grandezza del suo discorso silenzioso che ancora ci parla: ha confuso i pronomi. E la cosa più bella non è che tutto questo si ripete continuamente, ma è la speranza che tutto questo possa ripetersi. Agostino non dev’essere un discorso già fatto, ma il discorso da fare. Ago vive quando se ne parla e nell’esempio che ha dato. Ago vive ogni volta che si fa rivivere, ma non deve essere una moda o un fatto scontato. Ago vive non tanto quando oggi ne celebriamo un compleanno che per forza ci fa male, ma nei ragazzini che al Torneo Agostino Di Bartolomei a giugno dell’anno scorso si sono messi a cantare “oh Agostino! Ago-Ago-Ago-Agostino go” insieme con i ragazzi della Sud che stavano al campo Di Bartolomei. Agostino rivive nei fiori che i ragazzi hanno dato alla moglie Marisa. Ago rivive nei fiori, soprattutto in quelli senza vaso.
Ago vive nella bandiera che Franco Tancredi ha sventolato sotto la Sud nel giorno della hall of fame, nella commozione di Francesco Totti e Daniele De Rossi nel giorno in cui a Trigoria è stato inaugurato il campo Agostino Di Bartolomei. Vive nel nome di quel campo e in tutti i campetti senza nome, soprattutto in quelli di periferia dove regna ancora “amicizia e aiuto reciproco” e si prende a pallonate l’indifferenza. Agostino c’è stato prima e dopo perché continua a esserci anche adesso che non c’è più. Agostino di Bartolomei è stato e ci ha portato al punto più alto quando quella notte di maggio del 1984 è diventato luce e con quella maglietta bianca ci ha portato in vantaggio contro il Liverpool. Allo Zenit e poi ne abbiamo visto il tramonto. È stato come aver visto il Sole scegliere di morire. Dieci anni dopo. E questo è l’errore, il nostro, non il suo. Di tutti.
E allora forse scrivere e dire che Agostino Di Bartolomei ha amato la Roma persino più della sua vita, che sicuramente per la Roma ci ha vissuto, che quella mattina di merda ha lasciato una foto della Sud contro il Liverpool con un volo di colombe, che un tifoso della Roma non lo deve dimenticare mai, che deve riuscire a capire come e quanto ci ha dato, sarà forse un errore, ma è l’unica cosa che possiamo e che soprattutto dobbiamo fare.
Anche perché al suo confronto ci potevamo solo sbagliare.
Sei stato troppo amore Ago.
Auguri Capitano mio.