(E. Sisti) Totti sì, Totti no. Totti con, Totti senza. Splendore assoluto e incupimenti profondi si sono alternati nella “seconda vita” del “capitano”. Un momento di malinconia, una pietanza pesante, una parola sbagliata, un infortunio curato male o perché no quel maledetto rigore tirato in bocca al portiere, o magari tutte queste cose insieme. Un pugno di eventi hanno cambiato la storia di questo campione. Un giorno il “capitano” si è reso conto di non essere più indispensabile. E niente è stato più come prima. In quel momento al “Totti con” si affiancò il “Totti senza”. Diventato la somma di talento, creatività, fragilità e passaggi in sala operatoria, Totti ha cominciato a convivere romanescamente con le “fregne”, o “buggere”: insomma con quel malumore che esternava in vario modo, a volte limitandosi ad alzare l’estremità del labbro superiore, come quando passava di corsa senza dire una parola, quasi a voler sfuggire a se stesso, oppure prendendo a spintoni Vito Scala a Livorno o a calci Balotelli.
Ma adesso torniamo al 2010. E precisamente al derby di ritorno. È lì che comincia ufficialmente l’era delle buggere, è lì che Totti scopre che la più autorevole guida per il paradiso del quarto scudetto, sfiorato sin troppe volte, può trasformarsi di colpo in un ingombro, adorato, ma pur sempre un ingombro. La scena forse è nota. La Roma di Ranieri si sta avvicinando al titolo. Ma il primo tempo del derby finisce 1-0 per la Lazio che dilaga mentre la Roma sembra quella dei tempi cupi, altro che lupi. Totti aveva vagato per il campo senza trovare spazio e quando cercava di toglierlo agli avversari scopriva che questi erano capaci di moltiplicarsi, due Ledesma, forse tre Radu, sei Brocchi, quattro Diaz. Durante l’intervallo il tecnico gli dice: «Checco va’ a farti la doccia». Magari glielo dice con una pacca sulla spalla ma il senso è quello. Fa lo stesso con De Rossi. La Roma vince quel derby senza Capitan Checco e Capitan Futuro. È il segnale.
Pochi giorni dopo Totti allunga il contratto di altri quattro anni, ma già si parla del “dopo”. Ed è lì che Totti si perde. Quando tutti, oltre a lodarne le giocate, che continuano ad esserci, s’interrogano su quando smetterà, lui viene colto dall’horror vacui. Cade nella trappola e anche lui comincia domandarsi: «Che c’è dopo? Cosa farò dopo?» Un tarlo. Il campo ne risente. Nel 2011, con Luis Enrique in panchina, contestato dopo la Juventus dice: «Sono io il problema? Lascio Roma». Si fa male sempre più spesso. Peter Pan è un lusso fragile. E i tempi di recupero si allungano sempre di più sino al paradosso di sentirgli dire a Spalletti: «Non entro mister, ho paura di non essere abbastanza caldo». Si fa sei minuti contro il Real Madrid. Abbacchiato ma ironico manda agli atti: «Volete intervistarmi? Ma che ci fate con me ormai…». La sua scia di “colpi” degli ultimi anni, giocando pochissimo, rimangono nella storia: Lazio, Atalanta, Torino, Sampdoria. Per sé, contro Spalletti.
E poi c’è il corpo: che a freddo gli chiede sempre più spesso il conto. Dalla sostituzione nel derby a oggi Totti ha collezionato 321 giorni di infortuni vari. Quello rimediato contro il Napoli all’inserzione del bicipite femorale fu drammatico, s’è quasi sfiorato il distacco dell’inserzione. Per riprendersi ha impiegato mesi. Al Bernabeu, che lo sognò vestito di bianco, ci fu un’ovazione. L’ultimo Totti decisivo ad alti livelli è stato quello della rete contro il City, la più “vecchia” della Champions, un dono a cielo aperto che persino Manchester, metà della quale era stata ridotta da quel gesto di Totti, ribattezzato dagli inglesi “The Greytest”, a una tetra città, non ha potuto fare a meno di apprezzare. Il talento dei grandi è un patrimonio planetario. Ma non dura mai abbastanza. La testa stacca, l’anima no, si ribella, vuole ancora giocare, a dispetto dei santi e dei tendini. Al corpo restano l’arte e la magia, ma la forza di esprimerle non ci sono più.