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Il Foglio Totti, lacrime de ‘sta città. Funzionava solo lui

(A. Minua) “Hai pianto pure te?” “Ammazza se ho pianto, ho pianto co mi’ fijo, ho pianto co mi’ cognato, ho pianto pure dopo, a casa”. A Roma il giorno dopo si fatica a ripartire. Si contano le lacrime versate. E’ spaventoso questo futuro senza Totti. Una moltitudine di lacrime romane, lacrime giallorosse, lacrime de sta città. Piange Sabrina Ferilli, piange Claudio Amendola, piange Carlo Verdone, “ho pianto quando faceva il giro con la famiglia”, confessa Giannini, detto er principe, ex giocatore e padre spirituale di Totti, “perché sembrava Il Gladiatore quando cammina nel campo di grano prima di morire”.

L’addio di Totti come saldatura perfetta tra l’epica pacchiana dei blockbuster mitologici, i raduni dei legionari, i cerimoniali di “C’è posta perte”. Il capitano apre la busta, legge la lettera, partono i medley con le musiche di Morricone, il “Re leone”, “La vita è bella”, gli inni di Venditti, è come una finale del superbowl della romanità. Mancano solo le naumachie. Si poteva allagare l’Olimpico, riempirlo di tutte le lacrime versate per il capitano. Si piange perché va via Totti, si piange perché finisce un’era, si piange perché, come ha scritto il pupone, “a un certo punto della vita si diventa grandi”. Un momento che questa città, culla della civiltà, dell’impero e dell’adolescenza permanente, sa rimuovere, dilatare, differire all’infinito. Forever pischello.

“Un momento che non volevo arrivasse mai”, confessa Totti rivolto allo stadio. “A Roma non ci sono nevrotici”, spiegava Fellini, “ma nemmeno adulti”; “questo pancione placentario impedisce la crescita; è una città di bambini svogliati, scettici e maleducati e anche un po’ deformi, giacché impedire la crescita è innaturale.

“Nascere romani e romanisti è un privilegio”,dice Totti, anche se ora “ha paura”; “ora ha bisogno di noi”. Siamo tutti puponi ma cresceremo, ci faremo forza, ti staremo accanto, certi amori non finiscono, fanno dei giri immensi poi ritornano. Per provare a liberarsi del peso dell’addio, Favino ha scritto una poesia. S’intitola “Io t’avevo un Re”: “E lo voleva il mondo ma ce l’avevi tu, ecco perché so’ triste, perché nun ce l’ho più”. Brividi. La lettera di Totti è già una reliquia. Piena di passaggi-chiave che vedremo nei prossimi tatuaggi in spiaggia a Capocotta: “Lo sapete che non sono di tante parole però le penso”, in font gotico sull’avambraccio destro.

Totti voleva dirlo con una canzone o una poesia ma “non sono capace di scriverle”, nella vita “ho sempre cercato di esprimermi coi piedi”. Finisce un’era della citta, orfana di Totti, della politica, del cinema, della tv che si sposta a Milano. Restano solo i gabbiani e i cinghiali. E’ tempo di bilanci. L’esegesi tottiana ha prodotto nel tempo due grandi modelli interpretativi. Una lettura valoriale, alla Papa Francesco, che fa leva sull”‘attaccamento alla maglia”, “poteva vincere tutto ma è rimasto a Roma”, “in un mondo dove trionfa il mercato, non tutto si compra” e roba cosi. L’altra, minore, insinua nel gesto d’amore il calcolo realistico: non vincerò mai nulla, ma perché andare a Milano, Madrid, Manchester o Barcellona dove fa freddo, devo impara’ l’inglese, si mangia male, sarei solo uno dei tanti, quando posso restare qui co mi’ madre, mi’ padre, mi’ fratello, l’amici, la famiglia. Così si fa il re di Roma. Così si perpetuano il dramma cosmicomico, la farsa, il senso ultimo di questa città.

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